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Lo storico logo bianco e nero della Sub Pop

Non solo flanella: i 20 anni della Sub Pop

Chi si aspettava che una piccola etichetta come la Sub Pop arrivasse a compiere 20 anni? E non solo che durasse così a lungo, ma che addirittura pubblicasse 5 dei suoi 6 album più venduti dopo il 2001?
Già, la Sub Pop compie 20 anni ed è più viva che mai, in netta controtendenza con la crisi del mercato discografico. Solo chi negli ultimi anni è rimasto con la testa sotto la sabbia pensa ancora alla Sub Pop come all’etichetta del giunge, quella che ha avuto il merito di lanciare
Nirvana, Soundgarden e Mudhoney. Quindici anni dopo che l’America ha indossato le camicie di flanella, la Sub Pop è ancora viva e vegeta e continua a proporre artisti di culto del panorama indipendente (Band of Horses, Iron & Wine) e non solo (The Shins, arrivati alla seconda posizione della classifica di Billboard).


La storia:

Furono i Soundgarden a far avvicinare i fondatori della Sub Pop, Bruce Pavitt e Jonathan Poneman, a Seattle nel 1987. Poneman era promoter e DJ della stazione radio pubblica KCMU, a detta del suo collega Pavitt un tranquillo osservatore, pensieroso, analitico. Al contrario, Pavitt portava scritta in faccia la sua passione per il rock ed il punk del nord est del paese. Dice di lui Mark Arm, cantante e chitarrista di Mudhoney, Green River e Monkeywrench: “Aveva sempre qualcosa sulla punta della lingua che lo rendeva entusiasta”. A quel punto, Pavitt aveva già utilizzato il nome Sub Pop per alcuni progetti: una fanzine con cassette allegate, il suo programma su KCMU e una rubrica sulla rivista musicale locale The Rocket. Aveva anche fatto uscire un album chiamato Sub Pop 100  che includeva indie band come Sonic Youth ma anche punk band come Wipers e U-Men. Quando Poneman si offerse di finanziare Screaming Life dei Soundgarden, lui e Pavitt divennero soci nella Sub Pop. Lasciarono le loro precedenti occupazioni ed il 1° aprile 1988 si trasferirono in un minuscolo ufficio nel Terminal Sales Building di Seattle. Intorno al bagno accatastavano scatoloni colmi di dischi. Già dai primi tempi i due parlavano pubblicamente di “conquista del mondo”. Ovviamente era una sciocchezza. La Sub Pop dopo tutto nasceva a Seattle. Verso la fine degli anni ’80 Microsoft doveva ancora conquistare il mondo dei computer e Starbucks non aveva ancora aperto ad ogni angolo della strada. Seattle era una pozza d’acqua stagnante per l’opinione pubblica del paese, e in particolare per quella dell’industria musicale. Premesso questo, Pavitt e Poneman erano seriamente intenzionati a creare un marchio che rivaleggiasse con etichette classiche come Motown o Blue Note. Molte delle prime uscite avevano un look simile: una banda nera attraverso la parte alta del singolo, col nome del gruppo seguito dal nome del disco, il tutto in carattere sans-serif. Spesso le copertine ospitavano le fotografie, movimentate ed iconiche, di Charles Peterson. I credits degli album e dei singoli citavano spesso solo Peterson ed il produttore Jack Endino. Lesinare sul testo, diceva Pavitt, facilitava la connessione viscerale al disco, aggiungeva un che di misterioso e affermava i due come fotografo e produttore ufficiali dell’etichetta.
Poi c’era il logo. “Quel logo è stato il motivo principale per cui desideravo lavorare con Bruce” dice Poneman. Evolutosi nel tempo attraverso l’uso per la rubrica di Pavitt su Rocket e poi su Sub Pop 100, il marchio era un ingrediente chiave nel creare l’immagine dell’etichetta. Crudo e semplice, con un “SUB” bianco su fondo nero ed un “POP” nero su fondo bianco, il logo si prestava alla riproduzione sulla stretta costola di un CD come su un enorme poster. Nei primi tempi, le t-shirt con il logo Sub Pop andavano a ruba surclassando le vendite dei dischi. “Abbiamo subito capito che il modo migliore di investire i soldi della promozione era guadagnare visibilità facendo indossare ad altri il nostro logo” ricorda Pavitt. Infatti, l’approccio di Sub Pop era teso all’affermazione del logo in maniera inflessibile. A quel tempo i singoli in vinile 7 pollici erano molto in voga tra i punk. Realizzarli in edizioni limitate li rese ancor più ricercati ed incoraggiò un passaparola che accrebbe l’interesse per l’etichetta. Ma questo alimentò anche la frustrazione dei fan nel trovare spesso i singoli già sold out nei negozi. Fu così che nacque il Sub Pop Singles Club: i fan si abbonavano e ricevevano mensilmente dei 7 pollici in edizione limitata. L’etichetta veniva pagata in anticipo, ai fan arrivavano vinili rari tramite posta, e nell’underground l’interesse per l’etichetta di Seattle cresceva.
Oltre ai fan, la Sub Pop attirò anche l’attenzione della stampa, specialmente la stampa musicale inglese, riviste come Melody Maker e New Music Express erano totalmente devote a Sub Pop e questo spinse l’etichetta a strategie di marketing esagerate. Nel marzo 1989 l’etichetta pagò un volo per Seattle a Everett True di Melody Maker perché approfondisse la situazione della scena sul posto. Il suo resoconto eccitato “Seattle: Rock City” accese l’appetito europeo per tutto ciò che proveniva dal nord ovest americano e soprattutto per l’ibrido punk metal di Seattle conosciuto come grunge rock.
Tre mesi dopo, Sub Pop realizzò Bleach, il primo album dei Nirvana. Anche se non fu un successo immediato fece molto parlare di sé nei circuiti indie americani. Thurston Moore dei Sonic Youth supportava sia Nirvana che Mudhoney nelle sue interviste. Band che un tempo portavano un centinaio di scoppiati nei club di Seattle adesso facevano il tutto esaurito al Moore Theater della stessa città. Nel frattempo per Sub Pop uscivano i dischi degli heavy rockers Tad, degli offensivi Dwarves, delle femministe L7.

Sfortunatamente il successo artistico della Sub Pop era accompagnato da problemi finanziari. In breve: fare in modo che le band fossero sulla bocca di tutti costava un sacco di soldi. La spiegazione più dettagliata tiene in considerazione spese irresponsabili per pasti e viaggi, altissime spese legali di Pavitt e Poneman per varie diatribe con le etichette major, ed un sistema di distribuzione non proficuo. I licenziamenti iniziarono nella primavera del 1991: la compagnia passò da uno staff di 25 persone a 5. “Stando in ufficio sentivi lo stress, la pressione finanziaria” dice Megan Jasper, che iniziò a lavorare a Sub Pop nel 1989 alla reception, ed è oggi vicepresidente. “Ma fuori di lì tutti pensavano che Sub Pop avesse più soldi di quelli che la compagnia avrebbe potuto gestire. E questo accadeva per il modo in cui tutto veniva commercializzato all’epoca. Ad ogni modo la voce stava iniziando a girare. The Rocket ed il Seattle Weekly scrivevano storie che predicevano la fine dell’etichetta. I musicisti ai concerti facevano girare voci riguardo agli assegni di Tad da Sub Pop che tornavano indietro protestati.
Paradossalmente, i Nirvana allo stesso tempo salvarono l’etichetta e prepararono il terreno per  anni ancor più duri nella parte finale della decade. Con il loro secondo album Nevermind, i Nirvana lasciarono la Sub Pop passando alla major Geffen/DGC. Nove mesi dopo la sua uscita, nel settembre del 1991, Nevermind aveva venduto 4 milioni di copie. Sub Pop ottenne una buonuscita per il contratto dei Nirvana oltre a delle royalties sui futuri album e questo aiutò l’etichetta a uscire dal rosso per tornare ad avere bilanci positivi. Ovviamente Nevermind rese la parola grunge familiare e portò le camicie di flanella e gli anfibi Dr. Martens nelle vetrine dei negozi alla moda. A questo punto le major puntavano le band di Seattle da qualche anno. Quando i Nirvana portarono la musica underground nel circuito degli album multi-platino, le major monitorarono in maniera ancora più ampia ed approfondita la scena locale ed iniziarono ad offrire più soldi perchè quelle band firmassero con loro. Improvvisamente Sub Pop entrava in competizione non solo con altre etichette indie, ma anche con le major.
Con così tanto denaro delle major che fluttuava attorno, gli artisti richiedevano anche alle etichette indipendenti grossi anticipi, budget più alti e un maggiore supporto. Pavitt cita una band come tipica di quei tempi: “Mi dissero che sarebbe andato bene un anticipo di $5,000. Due mesi dopo mi ritrovai a far loro un assegno da $150,000”.
Nel gennaio 1995, Sub Pop formulò un accordo con la Warner Bros. In cambio di un’immissione di denaro sonante, la Warner otteneva il 49% della Sub Pop. Così come il denaro aiutò l’etichetta a competere nel panorama post-Nirvana, portò anche dei cambiamenti che erano estranei alla cultura dell’etichetta. Poneman indica una serie di errori che seguirono l’accordo con la Warner. Sub Pop aprì degli uffici satellite a Toronto e Boston, spese troppi soldi per gli anticipi degli artisti, penalizzò le politiche di ricerca di nuovi artisti e stipulò regolari contratti con tutti i propri impiegati. Verso la fine dello stesso anno Pavitt lasciò l’attività presso l’etichetta da lui fondata per metter su famiglia nelle isole Puget Sound.
Ci furono chiaramente anche dei momenti positivi in questi anni. L’etichetta pubblicò i primi album dei The Go (mentre il loro Jack White stava cominciando a lavorare ad una band chiamata the White Stripes...) e Zumpano (capitanati da Carl Newman, futuro fondatore dei New Pornographers). Nel frattempo Sub Pop faceva la parte dell’etichetta storica del rock, pubblicando una compilation degli influenti punk australiani Radio Birdman ed evidenziando il debito nei confronti della musica definita Americana con Badlands: A Tribute to Bruce Springsteen’s Nebraska.

Sarebbe esagerato chiamare le misere scelte di mercato della Sub Pop nei tardi anni ’90 una benedizione. Nondimeno, cavarsela in questi anni ha messo l’etichetta nelle condizioni di rifiorire nel nuovo secolo mentre l’industria musicale si dibatte di fronte al cambiamento verso la distribuzione digitale. “Non puoi comprarti la soluzione di certi problemi” dice Poneman. “Devi tornare indietro alla tua missione”. E la missione è sempre stata quella della conquista del mondo — o, per metterla in termini più realistici, scoprire nuovi artisti e mostrarli al mondo.
La terza grande onda nella storia della Sub Pop arrivò nel giugno 2001 con Oh, Inverted World di The Shins. L’album fu immediatamente molto chiacchierato tra coloro che sanno sempre qual è l’ultima cosa alla moda, ma la band finì sotto attenzioni mainstream specialmente quando due loro brani divennero parte della colonna sonora del film Garden State (2004). Seguirono gli album indie-pop da classifica di The Postal Service e Hot Hot Heat, insieme a una sfilza di dischi modern folk di Iron & Wine e del rootsy rock dei Band of Horses. Sub Pop si è inserita (intenzionalmente) nella commedia/satira con la nomination al Grammy di uno spettacolo di David Cross e la vittoria sempre ai Grammy dei Flight of the Conchords.
Non che l’etichetta abbia abbandonato le sue radici underground. I Mudhoney dopotutto continuano a far uscire dischi su Sub Pop (e per dirla tutta il grunge non era l’unico focus della Sub Pop neanche nei primi anni di attività). Eppure, c’è una sensazione di riuscire a respirare più liberamente adesso che gli abbaglianti riflettori si sono spostati dalla città di smeraldo e dall’alternative rock. “Aprono nuovi club, persone nuove si trasferiscono in città” dice Jasper “trovi il tuo posto e cominci ad occuparti di altre cose. Ad un certo punto ti rendi conto che ti sei messo alle spalle quell’attenzione smisurata.”
Singolarmente quell’etichetta che dichiarava come obiettivo la conquista del mondo ha trovato un nuovo cammino sulla strada della responsabilità. Gli anticipi eccessivi per le band ed i video vengono evitati. Sub Pop lavora per rendere le sue band più autosufficienti possibile: i tour sono formulati in modo da guadagnare, più che per essere arginati dall’etichetta, ed i budget di registrazione sono realistici in modo da fornire alle band delle percentuali anche su vendite modeste. Nel frattempo Sub Pop ha colto l’opportunità di promuoversi a bassi costi anche sfruttando la proliferazione di modalità d’ascolto di musica online, troppo comunemente percepita solo come flagellazione del ventunesimo secolo verso le etichette. Ne 2007 Sub Pop ha lanciato una piccola etichetta indipendente chiamata Hardly Art, improntata all’esplorazione di territori musicali esterni al modello di mercato musicale tradizionale. Invece che incassare le royalty, le band dividono alla pari i guadagni con l’etichetta stessa. Le registrazioni rimangono di proprietà dei gruppi che le danno in licenza ad Hardly Art per la pubblicazione ed ogni contratto è per una uscita, non esistono contratti per più di un album. Mentre Sub Pop si avvia nella sua terza decade, Poneman descrive la sua storia come “innocenza, perdita dell’innocenza, innocenza riguadagnata”. Scherza, certo. (Quanto è ingenua un’etichetta che, dagli abissi delle disgrazie finanziarie, stampa magliette con la scritta “quale parte di SIAMO AL VERDE non riesci a capire?”). Ma in quello che afferma c’è un granello di verità.

A 20 anni Sub Pop cerca ancora di raggiungere i propri obiettivi allo stesso modo in cui i due intraprendenti ragazzi avrebbero fatto con Soundgarden e Nirvana due decadi fa. Poneman afferma che l’entusiasmo è sempre quello di un tempo: "Magari nel resto del mondo si comportano diversamente. Ma noi iniziamo il nostro percorso sempre con la stessa premessa: questo è fottutamente grande, questo spacca!"
 

 Redazione 

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 Articolo letto 463 volte. il 05 May 2008 alle 19:51
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