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Ritorna Seattle? Riecco i Mudhoney

di Pierluigi Lucadei

Ritorna Seattle? Sono passati tre lustri dall’esplosione commerciale del rock pesante e acido proveniente dallo Stato di Washington e comincia ad esser lecito il sospetto che da un momento all’altro possa arrivare un sacrosanto revival. Non appena sarà finito il rigurgito degli Anni Ottanta e si saranno sgonfiati i tanti new-wavers spuntati negli ultimi mesi, magari. O forse prima. Forse proprio il 2006 potrebbe essere l’anno buono. E’ vero, Soundgarden, Nirvana, Screaming Trees, Alice In Chains non ci sono più ma, per la miseria, sono tornati i Mudhoney di Mark Arm e prima dell’estate anche i Pearl Jam dovrebbero pubblicare il nuovo album. Nomi che danno i brividi solo a sentirli pronunciare, perlomeno a chi, come il sottoscritto, ha compiuto la maggiore età nell’anno della morte di Cobain. Entrambi, Mudhoney e Pearl Jam, mancavano alla prova dell’album dal 2002. I primi scomparsi dopo la pubblicazione di “Since we’ve become translucent”, i secondi sconfitti da George W. Bush nella battaglia del Vote For Change. E poi, vorrò vedercele per forza probabilmente, ma in questo 2006 mi sembrano esserci tante ricorrenze importanti: quindici anni esatti dall’uscita di “Nevermind” e “Batmotorfinger”; quindici anni dal video di Smells Like Teen Spirit che impazzava su Videomusic; dieci anni dall’album che ha chiuso l’argomento con un’arguzia e una presa di posizione come solo Eddie Vedder poteva, quel “No Code” che ha aperto nuovi scenari ai musicisti del Nord-Ovest; dieci anni dai canti del cigno di Soundgarden e Screaming Trees (“Down On the Upside” e “Dust”); dieci anni dal concerto più bello della mia vita (ovviamente c’era un gruppo di Seattle sul palco).

I Mudhoney non hanno la voce profonda di Mark Lanegan, l’eclettismo di Andy Wood, la chitarra zeppeliniana di McCready, la disperazione infinita di Cobain, l’imprevedibilità di Buzz Osborne, eppure la loro parola è sempre stata il vangelo di un suono che hanno definito e di uno spirito che hanno mantenuto integerrimo anche nei momenti di maggiore commercializzazione del movimento. Pezzi come Touch Me, I’m Sick e Overblown sono di diritto tra le tappe obbligatorie in cui fare sosta per chi voglia conoscere Seattle. Un rock, verrebbe da dire, senza effetti speciali. Due chitarre, basso, batteria, i Mudhoney sono sempre stati un fantastico gruppo garage.

Il nuovissimo “Under a Billion Suns” è un disco senza cali di tensione, che mantiene vivo il fuoco sacro del rock’n’roll sia quando l’adrenalina è al massimo (Where Is the Future, Blindspots) sia quando il ritmo rallenta (Endless Yesterday o le strofe di In Search of). Tra inni all’annullamento dei sensi («in a cluttered world of ugliness/blindness is the best defense/…/the more you keep on talking baby/the more I’m glad the less I hear/…/ deafness is the best defense»), amare prese di coscienza («like radiation/love lingers on/long after/the damage is done»), preghiere di amore straziato («I dropped the moon and it shattered at your feet/I lost my grip when my hands began to bleed/my gift the moon my gift to you/my gift just lays there like a pile of broken teeth») il suono pesante della premiata ditta Arm & Turner colpisce con violenza inaudita, una violenza cara che ci era mancata parecchio, facendosi perdonare più di una sbavatura. Empty Shells contiene l’emblematico verso «we’re the empty shells of our former selves». Where Is the Future nasconde un atto d’accusa contro i guerrafondai di nostra conoscenza («small-minded arrogant fools»). Il tema della guerra viene ripreso, purtroppo con un’evidente caduta di stile, in Hard-On for War: Arm canta le ragioni del conflitto seguendo la prospettiva deviata di un vecchio erotomane («the little boys are dying/to preserve our way of life/it’s our patriotic duty/to make sweet love tonight/see these lovely lonesome ladies/they don’t ignore me anymore/all these lonely lovely ladies/keep on knocking on my door/I’m the only game in town/and it’s so easy to score») e, con tutto l’affetto, si guadagna una figura pessima. Ma se la scelta è tra prendere e lasciare, prendiamo anche questo, prendiamo persino lo strumentale che annuncia sin dal titolo (A Brief Celebration of Indifference) lo stato d’animo che si otterrà ascoltandolo. Prendiamo senza storcere troppo il naso, anche perché i punti a favore di “Under a Billion Suns” non sono pochi: la curiosa presenza dei fiati, già sperimentata nel precedente “Since we’ve become translucent”, che regala frutti maturi (Let’s Drop In, Blindspots); lo xilofono in odore di psichedelica nella piacevole Endless Yesterday; le brevi ed efficaci I Saw the Light e Empty Shells; gli ululati di It Is Us. Prendiamo, soprattutto, perché siamo attirati da una tentazione irresistibile e da un’emozione vitale. Come quando passeggi per i fatti tuoi e incontri il tuo vecchio amore ed eri ancora al liceo e sono passati più di dieci anni ma lo stesso senti di non poter tener fermo il cuore. Con i Mudhoney nel lettore è come se si riavvolgesse il tempo e la nostra adolescenza si prendesse la rivincita sulla camicia di forza in cui l’hanno costretta. Perché certi treni dati per persi prima o poi ripasseranno. La camicia di flanella a scacchi non l’ho buttata. E’ rimasta piegata nel mio armadio per un bel pò di tempo ma presto la tirerò fuori.  

Titolo: Under a Billion Suns
Brani: Where Is the Future / It Is Us / I Saw the Light / Endless Yesterday / Empty Shells / Hard-On for War / A Brief Celebration of Indifference / Let’s Drop In / On the Move / In Search of / Blindspots
Produttori: Mudhoney & Phil Ek, Johny Sangster, Tucker Martine
Etichetta: Sub Pop

I Mudhoney sono: Mark Arm (voce, chitarra); Steve Turner (chitarra, voci); Guy Maddison (basso); Dan Peters (batteria).
 

 Pierluigi Lucadei

in Vetrina

 Articolo letto 1378 volte. il 09 Mar 2006 alle 17:36
 
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