Bruce Springsteen & the E Street Band @ Datchforum, Milano – 28.11.07
di Pierluigi Lucadei
Il gol di Fabio Grosso contro la Germania nel secondo tempo supplementare della semifinale dei Mondiali. Prendiamo quell’emozione lì. Durante un concerto di Bruce è come se Fabio Grosso segnasse almeno una dozzina di volte. Magari non è possibile né giusto quantificare la musica rock in termini di risultati e gol, ma Bruce è uno dei pochissimi artisti in grado di fare sempre cappotto e arrivare sul palco, segnare a ripetizione e far piangere gli spalti è il lavoro che gli è sempre riuscito meglio e io chiedo venia in anticipo se questo articolo l’ho caricato di enfasi ma scrivere a caldo non mi permette di fare altrimenti.
Il primo gol viene segnato già in apertura, quando il riff tagliente e senza fronzoli di Radio Nowhere ripaga delle ore di attesa, di freddo, di spinte. «I just want to hear some rhythm» è il primo grido sul quale il popolo springsteeniano si coalizza, le mani già tutte in aria. Di “Magic”, l’ultimo album del Boss, vengono proposte in avvio anche Gypsy Biker e la title-track, presentata come una canzone sulla magia usata da un Paese, gli USA, che negli anni dell’amministrazione Bush è riuscito a servirsi di trucchi degni di un illusionista per costruire una diversa e più conveniente realtà dei fatti. Reason To Believe crea un’atmosfera sudaticcia e malsana che viene amplificata da una chitarra acida che porta dritto ad un girone dell’inferno chiamato Adam Raised A Cain: i brividi percorrono la schiena senza sosta quando Bruce, percuotendo la telecaster e mostrando i polmoni, regala un capolavoro raramente eseguito dal vivo che in molti desideravano, in pochi si aspettavano e nessuno dimenticherà.
Ancora pelle accapponata e brividi sulla colonna vertebrale per una strepitosa versione di The Promised Land, strofe dolorose e chorus urlato all’unisono, grido di rabbia che non cela la speranza infinita che Bruce è riuscito ad infondere in uno dei suoi più riusciti inni giovanili. Sulla coda arriva il momento in cui Bruce disserta sull’amore con due pezzi così diversi nella forma eppure così simili nell’autenticità dell’attacco lanciato al cuore, la nuovissima I’ll Work For Your Love e l’antica Incident On 57th Street. Subito dopo ai fan italiani viene regalata una divertente e sempre frizzante The E Street Shuffle, con cui la band si esalta, ritrova accenti perduti, emana odore di New Jersey e si lancia verso il finale.
Nonostante gli anni che passano, lo spettacolo della E Street Band ha ancora pochissimi rivali in circolazione. Lo show milanese non è che l’ennesima conferma, due ore e un quarto senza interruzioni, senza cali di tensione, un continuum elettrico e roboante, tiratissimo dall’inizio alla fine.
I pezzi di “Magic” reggono l’urto della prova live con grande dignità, pur perdendo per forza di cose il confronto con i classici. I’ll Work For Your Love e Last To Die allo status di classici sembrano puntare dritto sin da ora, emozionanti e a cuore aperto. Girls In Their Summer Clothes, che su disco ha stracciato ogni concorrenza già dopo il primo ascolto, dal vivo rende invece meno del previsto, penalizzata forse da una scaletta che la colloca tra Badlands e Tenth Avenue Freeze-Out, ovvero il Bruce d’annata sul quale puoi scommettere a vita, giocarti la casa e continuare immancabilmente a vincere.
The Rising non si discute a prescindere, non fosse altro che per quei due versi («may their precious blood forever bind me/Lord, as I stand before your fiery light») che racchiudono meglio di qualsiasi altra opera d’arte la parte buona del post-11settembre americano. Badlands è il solito spit in the face, così solito e uguale a se stesso che non ammette repliche, pezzo rock di sconvolgente intensità, ululato pieno di disprezzo, puzza di marcio e respiro affannoso, il buio delle periferie trasformato in lanciafiamme.
La tripletta consegnata ai posteri con i bis stende anche i muri del palazzetto. La prima rete è una rovesciata di inconfondibile classe e inarrivabile potenza: Thunder Road, il momento in cui anche la minima distanza residua tra l’artista e il suo pubblico cessa di esistere. Non c’è persona dentro il Datchforum che non faccia propria la favola springsteeniana di fuga e di ali barattate con due paia di ruote, una favola che ha la bellezza di 32 anni ma che sa far suoi migliaia di tremiti che friggono all’unisono con un cappio di emozione come se fosse stata scritta ieri. Born To Run non può che arrivare in questo momento, bordata da fuori area che piega le mani al portiere e si deposita in rete, manifesto sempreverde che spalanca la strada alla fantasia del numero dieci, che si inventa una serpentina ubriacante, mette a sedere gli avversari e appoggia con leggerezza una Dancing In The Dark che potrebbe quasi cantarsi da sola. Ma il gol più bello Bruce lo segna a concerto finito, quando si inizia ad uscire dal Forum e si torna a casa: si tratta del gol più bello perché l’esultanza che ne segue è un’onda lunga che fatica a spegnersi e il concerto finisci per portartelo dietro giorni, settimane o mesi. Anche questa è magia.
Setlist:
Radio Nowhere / The Ties That Bind / Lonesome Day / Gypsy Biker / Magic / Reason To Believe / Adam Raised a Cain / She’s The One / Livin’ In The Future / The Promised Land / I’ll Work For Your Love / Incident On 57th Street / The E Street Shuffle / Devil’s Arcade / The Rising / Last To Die / Long Walk Home / Badlands // Girls In Their Summer Clothes / Tenth Avenue Freeze-Out / Thunder Road / Born To Run / Dancing In The Dark / American Land
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