L'Etiopia di Francesca
Dinanzi alla povertà dilagante, si ripropone continuamente il dilemma: fare l'elemosina o impegnarsi solo per dare migliori prospettive di vita?
02/09/2008 - La povertà, così visibile e immediata a livello urbano, crea disagio in chi l’osserva. Io non faccio eccezione, anzi in me si accresce per il contrasto tra un’etica propensa ad agire su ampia scala per intaccare le ragioni della povertà e l’urgente richiesta del povero di soddisfare almeno uno dei suoi bisogni primari. Ferma in macchina, infatti, in coda ad un semaforo, mi passano accanto tante persone che chiedono soldi per mangiare: donne con bambini in spalla, anziani, disabili, bambini e bambine. La scelta è tra donare loro qualche "birr" o sorridere accondiscendenti ma fare segno che non si vuole dare loro niente.
Esco dal cinema insieme a tanti altri etiopi ma i mendicanti si accalcano solo intorno a me per chiedere soldi: penso di essere il bersaglio preferito esclusivamente perché sono bianca e questo equivale in modo inconfutabile all’essere belli, intelligenti e soprattutto ricchi.
Poi c’è la questione del rapporto tra ferenji (straniero) e povero. Tendenzialmente io sono contraria all’elemosina perché credo che finché non verrà cancellata l’immagine del nero che allunga la mano e del bianco che la riempie non potrà esserci reale sviluppo. I veri attori dello sviluppo in Africa possono essere solo gli africani, mentre gli agenti internazionali dovrebbero avere un ruolo di sostegno e investire sulle capacità locali: i primi che devono avere consapevolezza di questo, però, devono essere gli africani stessi.
Questa etica dello sviluppo, che tende a negare l’assistenzialismo e che si basa su un senso di giustizia sociale piuttosto che su un sentimento di pena, si scontra però con la tenerezza che suscitano coloro che chiedono soldi, a cominciare dai bambini e dalle mamme, e soprattutto con la constatazione che chi riceve in dono 5 birr (1/3 di euro) può acquistare, ad esempio, mezzo chilo di banane e del pane.
Accade spesso così che ragazze chiedano “in prestito” dei neonati per suscitare maggiore pietà e addirittura, con lo stesso scopo, che i familiari procurino amputazioni ai loro infanti. Così come non è infrequente che i bambini che la sera tornano a casa senza aver raccolto abbastanza soldi vengano duramente malmenati. Per quanto queste pratiche siano frutto di disperazione, sono comunque aberranti e negare l’elemosina vuol dire anche rifiutarsi di alimentare questo sistema.
Per i musulmani fare l’elemosina è uno dei cinque pilastri della religione e anche per gli ortodossi etiopi questo aspetto è importante. Alcuni miei amici “ferenji” sono riusciti a darsi dei criteri: ad esempio, fanno l’elemosina a chi è molto vecchio o ai malati di poliomielite. Io non ho fatto una precisa scelta perché, anche se svolgendo questo servizio metto in atto una mia etica, questa rischia nell’immediato di non alleviare alcuna pena.
Ho scritto questo articolo perché l’altra sera ho incontrato un signore con gli occhi pieni di lacrime e la faccia supplichevole di chi non vede prospettiva di alcun miglioramento: ha allungato la mano e… la mia etica in quel momento non ha trovato alcuna giustificazione per negargli un aiuto immediato.
Francesca Bernabini
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