Baustelle @ Infortezza, Firenze – 23.07.08
Pensieri che passano nella mia testa durante il concerto dei Baustelle.
La prima canzone è Antropophagus, «amiamo l’uomo e il suo sapore, i signori e le signore, il loro eterno roteare, come agnello nel kebab»: calza a pennello per il terzomondismo col sorriso davanti e la rissa con le labbra spaccate dietro della manifestazione in Fortezza.
Francesco Bianconi ha un talento melodico fuori dal comune, ogni canzone ha nel ritornello un’apertura irresistibile che contagia anche chi fa di tutto per resistere. Il battimano è come una divisa, al concerto dei Baustelle lo indossi dall’inizio alla fine, ti spelli i palmi, e canti come un grullo, cantano tutti, i ragazzi si baciano, la birra scorre a fiumi, gli studenti li evito.
I Baustelle hanno davvero conquistato un grande pubblico in questi ultimi tre anni. Li si aspetta, li si ascolta e li si applaude con la stessa febbre riservata ai profeti. I Baustelle hanno il merito di aver colto in pieno lo spirito del proprio tempo, di aver centrato il cuore del problema, negli anni zero di risparmi avanzi e ricicli raccontano di vite povere ma belle, come un tempo, quando venivi al mondo e la libertà non esisteva.
La mia amica T. sa prendere le strade che vuole, in questo momento non è a più di mezzora a piedi da qui, ha gli occhi aperti e le orecchie che fischiano. E’ bellissima se tampona una feritina sul dito con un po’ di cotone e poi ci appoggia un minuscolo cerotto.
Alfredo è una canzone troppo bella.
Si sparge la voce che Mutu resta a Firenze: il patron Della Valle ha detto che il rumeno è incedibile. Sembrano tutti più sereni.
Quando Rachele agguanta il microfono, si porta a centro palco e si lancia sulle note di Dark Room, La vita va, L’aeroplano le vibrazioni sembrano stagliarsi in modo più nitido, l’igiene dei sentimenti è imperfetta ma spogliarsi dei propri demoni appare possibile anche in mezzo a tutti.
Tre ventenni di fianco a me non la smettono di raccontarsi storie e ridere a crepapelle mentre il gruppo suona. Accomodarsi fuori, please.
La scaletta saccheggia l’ultimo “Amen” e ripesca i brani più orecchiabili de “La malavita”, i primi due album praticamente dimenticati.
E’ la terza versione dal vivo de I provinciali che sento e anche stavolta mi stupisco di come Francesco riesca in maniera così puntuale a non intonare le strofe.
«L’unica cosa che ho è la bellezza del mondo, la sola che so è che vorrei conservarla per me».
La canzone del riformatorio, uno dei pezzi migliori dell’intero catalogo bianconiano, suonata neanche a metà, due strofe e un ritornello, sembra un aborto. Non è canzone da meritare un simile trattamento.
I Baustelle spengono le luci dopo aver suonato per un’ora e venti.
Se La canzone del riformatorio l’avessero suonata intera, non si sarebbe fatto troppo tardi, magari aggiungendoci Le vacanze dell’83 si sarebbe arrivati a un’ora e mezza tonda di concerto.
A concerto finito mi arriva un sms da T. che ha scelto questo momento per fare un annuncio solenne.
Per essere una band capace di segnare un’epoca, come hanno fatto i Litfiba vent’anni fa e i Marlene Kuntz dieci anni fa, i Baustelle devono necessariamente dare qualcosa di più dal vivo.
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