Romantici a Milano: intervista ai Baustelle
2006-04-09 - Toscani trapiantati a Milano, città verso la quale sono parecchio critici, i Baustelle hanno fatto il botto con il terzo album, “La malavita”, uscito lo scorso autunno. Il video del primo singolo, “La guerra è finita”, è stato per diversi mesi tra i video italiani più trasmessi dalle televisioni musicali e, da qualche giorno, è in rotazione anche il video di “Un romantico a Milano”. Nel frattempo, sabato 1 aprile, i Baustelle hanno concluso all’Auditorium Flog di Firenze il loro fortunatissimo tour invernale. Dopo il concerto abbiamo incontrato il leader Francesco Bianconi, giovane Gainsbourg da Montepulciano.
Non è il massimo fare interviste nei camerini, tra fumo, gente che va e viene e il chiasso assordante della rockoteca che arriva da fuori, ma stasera non c’era niente di programmato, mi è semplicemente venuta voglia di fare quattro chiacchiere con Francesco mentre lo ascoltavo cantare, così, eccomi a gridargli le domande per superare il frastuono e a scrivere le sue risposte su fogli di fortuna. Con il concerto di stasera è finito il vostro tour invernale? Quali sono le impressioni e gli umori dopo tutte queste date in giro per l’Italia? Sono molto contento. Il tour è andato bene, forse al di là delle nostre aspettative. Abbiamo trovato sempre locali pieni e di questi tempi non è una cosa facile, abbiamo trovato ovunque gente che cantava le nostre canzoni. Non posso che essere soddisfatto del nostro pubblico, sempre numeroso e partecipe. E ora, pensate già ai festival estivi? Sì, presto saremo in tour di nuovo, faremo i festival, suoneremo ancora parecchio insomma. Con “La malavita” siete approdati ad una major: quali sono le differenze sostanziali tra il mondo da cui venivate e il mondo major? Diciamo che differenze da un punto di vista di approccio creativo alla musica non ce ne sono state. La nostra casa discografica ha capito che eravamo un gruppo con un passato di un certo tipo. Ovviamente ci sono stati dei vantaggi: se una major lavora bene può mettere in moto una macchina promozionale molto potente. Nelle playlist di fine anno molti hanno indicato “La malavita” come uno dei dischi del 2005. Vi aspettavate tutto questo successo? No, non ce lo aspettavamo. Ma personalmente non penso mai alle playlist, quando scrivo e suono penso solo a dare il massimo. Comunque mi fanno piacere i riconoscimenti della stampa e, ancora di più, l’allargamento del pubblico. Trovo che nel brano “I provinciali” ci sia il ritornello più bello dell’album: «morire la domenica/chiesa cattolica/estetica anestetica/provincia cronica», è geniale. Ti ringrazio molto. Cosa puoi dire della canzone? “I provinciali” è una canzone non nuova. E’ stata scritta all’epoca del nostro primo disco, “Sussidiario illustrato della giovinezza”, ma non ci convinceva. Stavolta l’abbiamo ripresa, l’abbiamo riarrangiata e, secondo me, nel nuovo album ci sta molto bene. Invece l’idea per “Il corvo Joe” com’è nata? E’ nata da un fatto capitato a me. Io vivo a Milano ormai da quattro cinque anni e un giorno, passeggiando in un parco, ho visto dei barboni che davano da mangiare ad un corvo. Ho scoperto che i barboni l’avevano aiutato perché il corvo aveva una zampa rotta e così lui tornava sempre da loro. Il nome, Joe, è quello che gli avevano dato i barboni, quindi, vedi, non ho inventato nulla. Stasera, prima di cantare “Un romantico a Milano”, hai ripetuto più volte che Milano è morta. Che volevi dire? Milano è morta, un po’ è vero, e la canzone è una presa di culo del poeta maledetto. Diciamo che Milano ha avuto un ruolo centrale negli anni Cinquanta-Sessanta, anni di movimenti letterari ed artistici, anni in cui trovavi gente con l’urgenza di dire certe cose, gente che viveva davvero da bohemienne. Come Pietro Manzoni, che è morto a trent’anni ed è citato nella canzone. Questi artisti li trovavi nelle osterie, senza soldi, e la canzone evoca quel mondo. Ora è rimasto ben poco. Milano è diventata molto fumo e poco arrosto, gli è rimasta la moda e molto atteggiamento. Nella musica dei Baustelle sembrano convivere più decenni musicali (Sessanta, Settanta, Ottanta). Tu hai un decennio preferito? Personalmente credo che gli anni Sessanta siano stati quelli più rivoluzionari, perché si è sperimentato nel rock, nel pop, c’era il rock’n’roll, c’erano i Beatles, c’era Jimi Hendrix. La cosa bella è che si faceva sperimentazione anche nelle produzioni leggere, anche nelle canzonette, c’era un’avanguardia di massa, se così si può dire. Quali sono i tre dischi della tua vita? Il primo dei Velvet Underground, quello con Nico, poi il White Album dei Beatles. Questi due sono proprio fondamentali, poi ce ne sono tanti altri. Se te ne devo dire uno, per rimanere in ambito rock, dico Highway 61 di Bob Dylan.
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