L'Etiopia di Francesca
L'anno da "casco bianco" si conclude: è l'ora dei ricordi, Francesca torna a casa ma è già in programma un ritorno in Africa.
Dopo quasi un anno, lascerò l’Etiopia e l’Africa: non è un addio definitivo perché tra qualche mese tornerò. Ma ora pensarmi in Italia mi rende felice.
Torno molto contenta dell’esperienza fatta e con in testa tanti ricordi e belle immagini. Ripenso alle aspettative che avevo prima della partenza e al modo tanto veloce in cui poi sono “saltate”. Per quanto fossi pronta grazie agli studi universitari e alle precedenti esperienze di volontariato, per quanto fosse fornito il mio bagaglio motivazionale, dinanzi a tante situazioni difficili e delicate ho dovuto pian piano ricostruire le ragioni della mia scelta.
Mi torna alla mente una sera di dicembre nel giardino della mia casa di Moyale: ero lì da quasi due mesi, faceva caldo e mi ero appena rinfrescata. Non c’era elettricità in tutta l’area, il cane nero si era già disteso davanti al cancello rosso e le zanzare mi lasciavano poca tregua: appoggiata al palo che reggeva la tettoia davanti alla mia stanza, guardavo la luna stupefatta di quanta luce potesse emettere. Guardando il cielo stellato, pensai che la prossima volta che sarei ripartita per l’Africa avrei portato con me un libro che descrivesse le costellazioni per poterle poi rintracciare.
Mi lasciai coinvolgere dal silenzio: era la prima volta che mi sentivo felice in Etiopia. Fino ad allora avevo combattuto per “non mollare” e cercare di capire, quella sera invece mi ero lasciata andare. I primi giorni arrancavo, ma nel frattempo le persone che incontravo, a cominciare dai miei colleghi etiopi, avevano iniziato a starmi vicino, a farmi capire le cose, a non lasciarmi sola. È a loro che devo quella serata in solitudine in cui il mio cuore si è sentito pieno e ho ascoltato le mie labbra pronunciare un “grazie”.
Poi c’è stato il trasferimento ad Addis Abeba: prima la mia quotidianità era fatta di piste rosse, vacche e capre, pastori alti con la barba dipinta di rosso, alberi e fili d’erba sempre più gialli che verdi, cene con cibi separati per ortodossi e musulmani, odore di rifiuti bruciati e di resine profumate, ricerca di idee per cucinare le stesse cose in modi diversi, occhi scrutatori e bambini festosi al seguito, linea telefonica mal funzionante, razionamento dell’acqua, polvere, caldo, emozioni relazionali nuove, notti sotto le stelle, ore in macchina a guardare le acacie, chiacchierate di cui essere grata per sempre. In capitale c’è stata la crescita professionale, un po’ di noia, lo smog, la scoperta della povertà e, peggio ancora, della feroce disuguaglianza, la conoscenza di altri stranieri, le serate in pizzeria, il cinema, la malattia, la politica, il freddo, la pioggia, i tombini scoperti lungo le strade, le macchine e i minibus, i problemi con il mio visto, un profondo senso di ingiustizia, la ribellione che aspetta di manifestarsi ancora, i mendicanti agli incroci e i senza tetto sotto i ponti, gli orfani con le magliette bucate (ho sempre pensato che mia nonna avrebbe potuto facilmente rammendarle…).
Una sensazione che mi ha accompagnata per tutto questo anno è stata la scoperta di un altro modo di essere e di venire percepita, cioè come una straniera. Prima ci sono stati gli sguardi timorosi dei bambini, gli “you you” che mi urlavano per strada, i commenti della gente in giro, i saluti a volte troppo referenziali, il peso di determinate qualità date per scontate nei “ferenji”, infine le difficoltà irrisolte di ottenere un permesso per lavorare regolarmente nel Paese.
Oggi sbarcherò a Fiumicino: non dovrò sostare in fila con altri “non cittadini”, compilare moduli sulle ragioni del mio arrivo, rispondere a domande la cui utilità non sempre comprendo. Torno a casa: “amasegnallo” (grazie) a chi ha scelto di compiere insieme a me parte di questo percorso. Francesca Bernabini
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