L'Etiopia di Francesca
Il denaro portato dai turisti rischia di stravolgere le relazioni umane e di ingrossare le fila di coloro che aspirano ad emigrare
Qualche giorno fa ho deciso di comprare un maglione: per i più raffinati c’è la possibilità di acquistare nei centri commerciali o nei negozi dei grandi hotel, ma a me piace farlo in modo meno artificioso, allo stesso modo in cui compro il cibo dove vanno un po’ tutti e non nei negozi per stranieri. Quando da Moyale venivo per un paio di giorni in capitale, amavo andare “in gita” nei “negozi per ferenji” per non perdere del tutto il senso della “mia” realtà. Ora invece sorrido all’idea del prosciutto crudo in Etiopia, dove entrambe le religioni dominanti, ortodossa e musulmana, bandiscono il maiale dalla dieta di una persona.
Le vie principali brulicano di piccoli negozi che espongono già esternamente la propria merce. Sono entrata, ho scelto il maglione e la commessa mi ha indicato il camerino, spazio condiviso con una piccola cucina con una bombola di gas e due fornelli. Ho pensato che lì la commessa cucinasse il pranzo: ho trovato questa massimizzazione nell’impiego di spazio e tempo molto africana. Qui infatti si tende ad utilizzare al meglio ogni spazio disponibile e, di contro, viene considerata una cattiva gestione destinarli in modo esclusivo a una sola funzione che, tra l’altro, non lo impiega tutta la giornata. Ho immaginato che la commessa invitasse i colleghi vicini per pranzo, perché qui i beni, soprattutto alimentari, vengono condivisi; gli inviti, all’interno di un circolo di scambi non monetari, sono frequenti.
Si può comprare tutto ovunque: esistono negozi e botteghe, ma a volte è la strada il luogo per l’acquisto di mobili, borse, cibo e artigianato vario. Qui non esistono tariffe fisse e si passa metà del tempo a scegliere una sciarpa o una borsa e l’altra metà a contrattare sul prezzo. Uno straniero in Etiopia paga però la “tassa ferenji”, un sovrapprezzo determinato dell’assunto, difficile da estirpare, che il bianco deve essere per forza ricco. Capisco, accetto un sovrapprezzo ragionevole ma spesso questo sale al 200%: mi rifiuto perché non credo sia giusto né per me, né per le persone con cui mi relaziono essere vista solo come “opportunità per fare soldi”.
Non poca parte di responsabilità è però nostra, o almeno dei turisti irresponsabili. E’ comprensibile che un turista entri in un negozio e compri molta merce, perché magari la trova originale, bella, poco costosa e pensa che non gli capiterà più di tornare da queste parti. E’ altrettanto comprensibile, ma non condivisibile, che si faccia intenerire dai bambini che chiedono soldi, caramelle e penne (in alternativa si potrebbero fare delle donazioni ad associazioni che lavorano per i bambini). E mi rendo conto che sia inevitabile che vada in giro con macchina fotografica al collo e veicoli attrezzati, ma a volte si potrebbe essere più discreti.
Ho in testa tante immagini che non ho avuto il coraggio di fotografare perché troppo tenere (mi sarebbe sembrato di violarne l’intimità) o truci (sarebbe equivalso a rendermele presenti per sempre): veder gettare qualche “birr” nel piattino tenuto in bocca da una persona per fargli una foto mi ha dato l’idea di essere tornata secoli addietro, quando esistevano gli zoo umani. Così come non mi piace vedere turisti spavaldi convincere con i soldi una persona a mostrare la sua capanna o un’autorità tradizionale il pozzo, carico di significati profondi, talvolta tendenti al sacro, che fornisce da secoli acqua alla comunità. A lungo andare, s’innesca un meccanismo per cui un abitante del luogo offre di mostrare la propria casa ad uno straniero non per senso di ospitalità e desiderio di relazione ma solo per riceverne un profitto. Raccontare di essere entrati in una capanna o aver assistito alla raccolta dell’acqua in modo tradizionale è bello, la possibilità di pagare lo ha reso possibile e facile: ma ci si lascia dietro l’immagine di “portatore di soldi”che, moltiplicandosi, spinge tanti ad immigrare nei Paesi da cui i “portatori” provengono. Francesca Bernabini
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