L'Etiopia di Francesca
Una straniera sperimenta su se stessa la condizione di inferiorità in cui vivono le donne etiopi / 21
20/3/2008 - A volte mi arrabbio perché mi trattano come una donna di qui. Qualche esempio? Se al mio dirimpettaio di scrivania dico qualcosa che può sembrare strana ma che è vera, spesso non mi crede finché il mio collega maschio non glielo conferma. Se andiamo a interloquire con alcune autorità, in particolare quelle somale e musulmane, può capitare che il mio collega maschio venga salutato con una calorosa stretta di mano mentre a me viene offerto il polso, da stringere come se fosse una mano. Addirittura se vado in alcuni villaggi non vengo proprio salutata se non con un cenno del viso, perché l’applicazione letterale di un precetto religioso musulmano vieta agli uomini di toccare le donne che non sono “proprie”. Qui a Moyale, se la sera esco per farmi due chiacchiere con un collega in un bar o in un locale, ai tavolini siedono solo maschi: le ragazze che girano tra i tavoli sono prostitute ed è facile immaginare come, soprattutto le prime volte, ciò mi creasse un forte imbarazzo: mi chiedevo cosa gli altri uomini pensassero di me…. I miei colleghi mi hanno tranquillizzato: sono “ferenji” e a Moyale si sa che le straniere la sera escono come gli uomini senza quindi essere prostitute. Un giorno, mentre camminavo per Moyale Kenya, un ragazzo mi ha tirato un sasso sulla schiena, probabilmente perché indossavo dei jeans, comunemente portati da prostitute.
Quando una sera ho rifiutato un terzo drink, il collega che me lo offriva mi ha detto: “Tu dici sempre che uomini e donne sono uguali, allora devi bere ancora come me”. “Uomini e donne devono essere uguali nelle possibilità di scelta – ho risposto - come tu puoi scegliere di bere una terza volta, io posso scegliere di fermarmi alla seconda!”.
Sia a Moyale town che nei villaggi mi è capitato di ricevere varie proposte di matrimonio che non vengono rivolte direttamente a me, ma ai colleghi dello staff locale che mi accompagnano. I miei colleghi si divertono poi a raccontarmi quanti cammelli sono stati offerti e in particolare scherzano sulla posta che hanno rilanciato. Uno addirittura mi ha chiesta come terza moglie: il mio collega lo ha scoraggiato argomentando che le “ferenji” non sono capaci di percorrere chilometri per andare a prendere l’acqua tutti i giorni, non accudiscono i figli delle altre mogli e soprattutto non accettano di non essere l’unica moglie. Quando un altro mio collega ha appreso che in Italia se un uomo ha più di una moglie rischia la galera, ha osservato: “E’ peggio avere altre donne di nascosto e quindi non sarebbe meglio legalizzare la cosa?” Questa domanda mi ha messo un po’ in difficoltà e l’ho buttata sul piano culturale, affermando un generico e salvifico: “Mah, dipende dalla cultura di appartenenza.”
Questo collega è la stessa persona che, nonostante le pressioni della famiglia e della comunità, ha rifiutato di ripudiare la moglie, o almeno di prenderne un’altra, perché dopo 4 anni di matrimonio non era ancora nato un figlio. Lui rispondeva alla sua famiglia che se Dio non mandava loro un figlio, la colpa non era sua o della moglie e che continuava ad amare la donna che aveva scelto senza sentire il bisogno di averne altre. Mentre mi raccontava questa vicenda mi mostrava sul cellulare la foto di Aftin, che significa Luce, il bambino nato a dicembre. (da provincia.ap.it)
Francesca Bernabini
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