di Lucio Garofalo
03/01/2008 - Molto spesso da noi, in Alta Irpinia, ma anche altrove, la politica non risolve affatto i problemi della gente, anzi talvolta nemmeno se li pone. Quelli che sono i bisogni concreti dell'ambiente, della salute dei cittadini, della qualità della vita, il diritto al lavoro e alla casa per i giovani, il diritto all'istruzione pubblica e all'educazione delle nuove generazioni, le istanze relative alla cittadinanza, tutto ciò è in pratica dimenticato o trascurato dalla pubblica amministrazione, è ignorato dagli enti locali. Come accade rispetto a tante questioni particolari, a tante cosiddette "emergenze permanenti" come il problema, ormai decennale, dello smaltimento dei rifiuti.
Come d'altronde accade in numerose altre circostanze. Come accade nel caso di un fiume, l'Ofanto, che in passato è stato testimone di vicende storiche memorabili, come alcune battaglie epocali (si pensi alle terribili guerre sannitiche o alle guerre puniche, nella fattispecie allo scontro tra l'esercito romano e la spedizione cartaginese in Italia, guidata dal grande condottiero Annibale), e che ora è ridotto ad una vera e propria cloaca, una discarica a cielo aperto. Così come avviene da anni rispetto ad una cava, quella che sta letteralmente divorando una montagna ai cui piedi sorge un'intera contrada rurale. Il padrone della cava si reputa forse il "padrone" del territorio, del paese, dell'intera cittadinanza? Come è possibile che siano tenuti in ostaggio la politica, i diritti delle persone, la democrazia locale? Di quali protezioni politiche gode? Quali influenze è in grado di esercitare in virtù del servilismo mostrato dalle istituzioni locali, in virtù quindi dell'eccessiva sensibilità, del trasporto e della passione che taluni "politicanti" serbano verso il potere seduttivo e il fascino, subdolo e perverso, del dio denaro?
Questo "fatalismo", così diffuso tra la gente, è il peggior nemico della gente stessa, nella misura in cui induce a pensare che nulla possa cambiare e che tutto sia già deciso da una sorta di destino superiore, da una forza trascendente, contro cui i miserabili e gli umili sarebbero assolutamente impotenti, ma così non è. In tema di "fatalismo" e di apatia politica, non si può non citare un famoso scritto giovanile di Antonio Gramsci, intitolato "Odio gli indifferenti", in cui il grande comunista sardo scriveva che vivere vuol dire "Essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia (...) Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti". Sempre in materia di assenteismo e di non partecipazione alla vita politica, rammento un bellissimo pezzo di Bertold Brecht, che diceva: "Il peggior analfabeta è l'analfabeta politico". Non c'è nulla di più vero e di più saggio. Brecht sostiene che l'analfabeta politico "non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell'affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L'analfabeta politico è talmente asino che si inorgoglisce, petto in fuori, nel dire che odia la politica. Non sa, l'imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, leccapiedi delle imprese nazionali e multinazionali.". Ed io aggiungo: "e delle imprese locali"...
Dunque, la politica dovrebbe basarsi non solo su ragioni sociali e materiali, ma anche su istanze etiche e spirituali, addirittura estetiche, nel senso che l’impegno politico potrebbe essere animato da uno spirito ludico e disincantato, da una sincera passione ideale e da un profondo elemento di piacere e speranza assieme, da un motivo di ricerca della felicità che appaghi un bisogno interiore di autorealizzazione della persona umana. In tal senso la politica dovrebbe essere l’espressione della volontà e della libera creatività dell’animo umano, che si realizza nel confronto interpersonale, nella pacifica convivenza sociale e nella dialettica democratica. Inoltre, la politica dovrebbe essere soprattutto un mezzo di aggregazione e di partecipazione sociale, uno strumento concreto, diretto e corale per concorrere e intervenire sui processi decisionali che interessano l’intera collettività; è una modalità di socializzazione tra gli individui, la più elevata e raffinata forma di socialità umana. Del resto, l’etimo greco antico del termine, da “Polis” (ossia: città), esprime il senso della più nobile e sublime tra le attività proprie dell’uomo, indica la suprema manifestazione delle potenzialità e delle prerogative attitudinali dell’essere umano in quanto essere sociale. Tale somma capacità dell’uomo si estrinseca nella politica in quanto organizzazione dell'autogoverno della Città. Oggi, purtroppo, l’antico valore della politica s’è perso del tutto, soprattutto dopo l’avvento e l'ascesa predominante dell’economia di mercato e dello Stato capitalistico-borghese, avvolto nell’involucro protettivo di una falsa e ingannevole “democrazia”, puramente formale e rappresentativa (ormai in fase decadente), un’ordinamento giuridico-statale che rappresenta un modo per frodare la gente con il consenso della gente stessa. Quell’originario senso della politica si è ormai deteriorato, tralignando nella più ignobile e squallida “professione”, ovvero nell’esercizio del potere fine a se stesso, un potere riservato a pochi “addetti ai lavori”, ossia ai professionisti e carrieristi della politica. Quella che era considerata un tempo una nobile arte ed un’occupazione elevata dell’uomo, la Politica con la “P” maiuscola, si è totalmente svuotata di senso ed oggi è concepita e praticata quale mezzo per appropriarsi e impadronirsi della città e delle sue risorse, umane, materiali e territoriali, ossia una carriera da intraprendere se si vuole mettere le proprie luride mani sui beni e sulle ricchezze del bilancio economico del Comune che, come tale, dovrebbe appartenere a tutti, dovrebbe essere un patrimonio collettivo, quindi gestito direttamente dalla comunità dei cittadini.
Tale visione e tale pratica del potere decisionale, in quanto appannaggio esclusivo di una ristretta cerchia di potenti e privilegiati, ossia i padroni del Palazzo, devono essere respinte e contrastate con forza, perché quel soggetto sociale organizzato in gruppo o partito politico, convenzionalmente chiamato “ceto politico dirigente”, non appena ha conquistato il privilegio derivante dal potere esclusivo sulla Città, si disinteressa altamente del bene comune, per occuparsi semplicemente dei propri loschi affari di casta, di corporazione o di élite, oppure di singoli individui. Questo stato di corruzione della politica, che non è più un’esperienza di autogoverno della comunità dei cittadini, ma un interesse privato ed egoistico di una minoranza sempre più circoscritta, è la causa principale che ha generato un sentimento di crescente indifferenza e disaffezione dei cittadini verso le vicende della politica, ovvero del governo della polis, in quanto rappresentativo degli interessi di pochi affaristi e trafficoni, nella misura in cui tale vicende sono recepite come estranee e distanti dagli interessi collettivi. Questo crescente distacco della “società civile” dal Palazzo del potere scaturisce dalla progressiva affermazione di un quadro politico retto su un assetto di condizioni economiche di iniquità, diseguaglianza e di espropriazione, derivanti da rapporti sociali gerarchico-verticistici di supremazia e soggezione, di comando ed obbedienza, per cui i Cittadini dell’antica Polis greca, del Comune autonomo nel Medioevo, della Comune nella prima Rivoluzione francese, della Comune parigina del 1871, sono stati ridotti e costretti ad uno stato di sudditanza, provvisti solo di diritti formali e fittizi, privi di qualunque potere sostanziale di autodeterminazione e autogestione politica. Pertanto, oggi è più che mai necessario riscoprire il valore originario della Politica, presente in modo effettivo nell’esperienza dell’antica democrazia ateniese, nella vicenda dei Comuni italiani del 1200, della Comune operaia di Parigi del 1871.
Occorre rilanciare l’idea dell’autogestione popolare e dell’autogoverno della comunità dei cittadini, guardando con interesse e con piacere alla viva esperienza dei Municipi autonomi zapatisti e sperimentando nella realtà delle piccole comunità locali l’idea della politica come rifiuto e critica radicali del potere scisso dalla collettività, ossia come partecipazione diretta di aree sempre più vaste della popolazione ai processi decisionali, a cominciare dai canali di controllo e gestione delle spese economiche del bilancio comunale. La grandiosa utopia della democrazia diretta a livello locale, oggi è non solo possibile ma necessaria, di fronte al nuovo, prepotente fenomeno di natura autoritaria e antidemocratica, determinato dall’avvento di un nuovo colonialismo che ha segnato la crisi e il declino della sovranità democratica, seppure solo formale, degli Stati nazionali, soppiantati dal potere smisurato di organismi economici sovranazionali che dirigono e controllano le dinamiche dell’economia di mercato e dei suoi assetti più propriamente bancari e finanziari, che si sono rapidamente affermati su scala mondiale. Questo fenomeno di globocolonizzazione neocapitalista ha determinato un pauroso incremento e un’ascesa inarrestabile del potere dei gruppi capitalistico-finanziari più forti, in particolare delle multinazionali, con danni e costi inimmaginabili e irreparabili per i diritti civili e sindacali, le libertà democratiche, i redditi dei lavoratori del sistema produttivo, di quello industriale prima di tutto, la cui condizione si fa sempre più precaria, vulnerabile e facilmente ricattabile.
Per tali ed altre ragioni, oggi è più che mai necessario: “PENSARE GLOBALMENTE E AGIRE LOCALMENTE”.