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Mafiopoli...ovvero Zitti e Seduti

di Lucio Garofalo

30/11/2007 - Nell’epoca del leggendario Far West americano, il Popolo degli uomini venne sterminato dall’esercito yankee nel corso delle sanguinose “guerre indiane”. La tribù pellerossa dei Sioux Dakota Hunkpapa era presieduta dal mitico capo e sciamano indiano Toro Seduto (in realtà il suo nome era Bufalo Seduto, o Tatanka Yotanka nella lingua autoctona dei nativi americani), reso celebre dalla storica vittoria ottenuta nella battaglia del Little Big Horn contro le truppe guidate dal tenente colonnello George Armstrong Custer, soprannominato “capelli gialli”, grande capo dei “visi pallidi”. Augh!
Successivamente, nel mondo della mafia siciliana, esattamente a Cinisi, spadroneggiava don Tano Seduto (cioè Badalamenti), a Corleone comandava don Totò Seduto (ovvero Salvatore Riina), poi diventato il boss dei boss, altrove troneggiava qualche altro don (vattelappesca) Seduto. Ma la mafia non è affatto tramontata, non si è dissolta con il declino e l’arresto dei boss più rozzi e malvagi, Riina e Provenzano, braccati e latitanti per decenni ed improvvisamente catturati dallo Stato, allorché si sono rivelati inutili e sorpassati come arnesi ormai vecchi ed obsoleti.

La rivoluzione antropologica della mafia



Quella che è morta e sepolta è senza dubbio la mafia più arretrata e tradizionale, quella messa sotto processo dalle inchieste dei giudici Falcone e Borsellino, ammazzati proprio dai sicari della cosca più feroce e all’epoca vincente, quella dei Corleonesi. Invece oggi, la mafia è più ricca e potente che mai, non è scomparsa solo perché non ammazza più come sua abitudine, ossia nelle forme brutali e truculente del passato, vale a dire usando le armi, minacciando e terrorizzando la gente, compiendo stragi crudeli e sanguinose per eliminare fisicamente i suoi nemici, siano essi tenaci e audaci sindacalisti come Placido Rizzotto, intrepidi attivisti politici come Peppino Impastato, giudici onesti e integerrimi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ci sono altre mafie che continuano a massacrare le persone in modo diretto e sinistro, ricorrendo anche ad eccidi eclatanti e (in)discriminati: la Camorra (ovvero ‘O Sistema) del clan dei Casalesi (vincenti nel casertano), la famigerata ‘Ndrangheta calabrese (detta anche Onorata società), la Sacra Corona Unita pugliese, o alcune tra le più feroci mafie straniere, quali la mafia russa, quella cinese, quella albanese, quella colombiana e via discorrendo. La mafia siciliana evita di ammazzare perché si è in qualche modo “evoluta” e “civilizzata”, non vuole più esporsi alle facili ritorsioni attuate dallo Stato, non intende più essere visibile, per “non essere”, vale a dire per offrire l’impressione di non esistere più. Infatti, rinuncia a mostrarsi, preferisce ripararsi dietro una facciata apparentemente più pacifica e rispettabile. Dunque, ciò significa che Mafiopoli non esiste più? Niente affatto. La mafia ha solo imparato a celarsi e dissimularsi meglio. Essa continua ad agire indisturbata, più e meglio di prima.
L’assetto del potere di Mafiopoli si è modificato profondamente, si è riciclato e ristrutturato. Anche la mafia, quella arcaica e primitiva, ha subito quel processo di rivoluzione neocapitalista che ha generato una sorta di mutazione antropologico-culturale, la stessa che Pier Paolo Pasolini ha descritto e analizzato a proposito dell’odierna civiltà dei consumi di massa. Dunque, la mafia si è modernizzata e globalizzata, diventando un’holding company estremamente potente, una corporation tecnologicamente avanzata, un’impresa finanziaria multinazionale.
Insomma, la mafia è a capo di un vasto Impero economico mondiale ed è oggi la prima azienda del sistema capitalistico italiano, una grossa compagnia imprenditoriale che può vantare ed esibire il più ricco volume d’affari del Paese.

Mafia S.p.A.



La mafia è diventata una ricca e potente società finanziaria privata, che potremmo chiamare Mafia S.p.A.: una Società per Azioni. Azioni criminali! Come criminale, o perlomeno disonesto ed immorale, è l’intero apparato economico-capitalistico, le cui ricchezze sono di origine quanto meno dubbia. “Dietro ogni grande fortuna economica si annida un crimine”, diceva con eleganza lo scrittore francese Honoré de Balzac.
Questa illustre e saggia citazione mi serve per chiarire come la natura della proprietà privata, del grande capitale, delle immense rendite economiche, sia sempre illecita e sospetta, se non criminale, in quanto discende da un atto iniquo e violento di espropriazione del prodotto (o valore) materiale creato dal lavoro collettivo. La matrice reale del sistema economico-capitalistico è di per sé violenta e disonesta, come tenta di dimostrare con successo Roberto Saviano nel suo best seller, Gomorra.
“Gli affari sono affari” per tutti gli uomini d’affari, siano essi personaggi incensurati accettati moralmente e socialmente, quali il defunto Gianni Agnelli, oppure i suoi eredi alla Fiat (Montezemolo, Marchionne & soci), siano essi figure losche e notoriamente riconosciute come spietati criminali, quali ad esempio l’ex re di Napoli e capo della NCO (Nuova Camorra Organizzata) Raffaele Cutolo, l’ex boss dei boss siciliani Totò Riina, o ancora Nicola Schiavone, meglio noto col soprannome di Sandokan, uno dei più efferati boss dei clan camorristici casertani. Belve feroci e sanguinarie o meno, assassini, delinquenti o meno, pregiudicati o incensurati, gli uomini d’affari sono sempre poco onesti, in moltissimi casi cinici e spregiudicati, per necessità, per indole o per vocazione individuale. Del resto, le mafie non sono altro che imprese economiche criminose, come ha ampiamente spiegato Saviano nel suo libro.
La mafia è fondamentalmente un’organizzazione imprenditoriale che esercita i suoi affari e le sue attività illecite con un obiettivo primario: il profitto economico privato. Per raggiungere il quale è disposta a tutto, anche a servirsi dei mezzi più sporchi e disonesti, a ricorrere al delitto più atroce e disumano. E per vincere la competizione delle società rivali, è pronta a tutto, a ricattare, minacciare e corrompere, persino ad eliminare fisicamente i suoi avversari. Parimenti ad altri gruppi imprenditoriali, quali le compagnie multinazionali di provenienza occidentale, che uccidono gli attivisti politici e sindacali che in America Latina o in Africa si oppongono all’espansione e all’ingerenza imperialistica esercitata dalle grandi imprese economiche internazionali.
In altri termini, il delitto, la follia e la sopraffazione appartengono alla natura più intima dell’economia borghese, in quanto componenti intrinseche ed essenziali di un ordine retto sul “libero mercato”, sulle sperequazioni e sulle ingiustizie che ne derivano. La logica “mafiosa” è insita nella struttura medesima del sistema economico-affaristico dominante, a tutti i livelli e in ogni angolo del pianeta, ovunque riesca a penetrare e ad insinuarsi l’economia di mercato e l’impresa neocapitalista. Ciò che eventualmente può variare è solo il differente grado di “mafiosità”, ossia di violenza, di irrazionalità ed aggressività criminale e terroristica dell’imprenditoria capitalista.
C’è chi elimina direttamente e brutalmente i nemici e i concorrenti, in modo feroce e sinistro, come avviene nel caso di tante “onorate” società riconosciute come criminali (ad esempio Cosa Nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta ed altre associazioni a delinquere di origine straniera), c’è chi invece impiega sistemi meno rozzi, più eleganti e sofisticati, ma altrettanto spregiudicati e pericolosi.

Non vedo, non sento, non parlo…


In dirittura d’arrivo, un ragionamento finale, ma non esaustivo, vorrei riservarlo al fenomeno dell’omertà sociale. Mi permetto di suggerire anzitutto una definizione abbastanza sommaria assunta da un comune dizionario: l’omertà è la solidarietà col reo, è l’atteggiamento di ostinato silenzio teso a coprire reati di cui si viene direttamente o indirettamente a conoscenza. Il termine omertà è di origine incerta, con molta probabilità è riconducibile all’etimo latino humilitas (che vuol dire umiltà), adottato successivamente nei dialetti dell'Italia meridionale e modificato in umirtà. Da questa fonte vernacolare potrebbe essere scaturita l’odierna voce italiana. Infatti, nel gergo mafioso chiunque infranga il codice dell’omertà, o tenti di far luce su una verità, viene disprezzato e riprovato come individuo “infame” e “presuntuoso”.Il codice dell’omertà, tipica consuetudine del sistema mafioso, rappresenta da un punto di vista psicologico la salvaguardia dell’ambito familiare, la tutela dell’onore del proprio clan di appartenenza. La famiglia mafiosa impartisce ai suoi membri il culto del silenzio, della reticenza, della non parola, quale requisito essenziale della virilità (attribuito anche alle donne). L’infausta catena omertosa si configura esattamente come un fenomeno sociale che fornisce una delle basi su cui si erge il lugubre potere criminale e terroristico dell’organizzazione mafiosa. Per estensione, il codice omertoso si impone ovunque sia egemone una realtà di tipo mafioso, nel senso più ampio del termine. Dunque, l’uso intelligente e raffinato del linguaggio, se necessario urlato, il parlare ad alta voce, può esprimere un gesto di rottura e rivolta contro il silenzio dell’omertà mafiosa in senso lato, può ispirare e stabilire anche un modello di educazione basato su codici di comportamento meno oscurantisti, più liberi e democratici. Personalmente, credo molto nel potere e nella priorità del “verbo”, ossia della parola, intesa ed esercitata non solo quale veicolo di comunicazione, ma altresì come metodo di critica e denuncia della realtà, come prezioso strumento di interpretazione e trasformazione rivoluzionaria del mondo, che non è l’unico esistente, né il migliore dei mondi possibili. Infatti, il linguaggio contiene in sé la forza e i requisiti necessari a mutare lo stato di cose presenti, a migliorare le nostre condizioni di vita e la realtà circostante. Potenzialmente la parola vale molto più di un pugno nello stomaco, e può contribuire a spezzare le catene dell’oscurantismo e dell’indifferenza sociale derivanti dal codice omertoso. Il linguaggio può giovare alla causa della democrazia e della giustizia sociale, interrompendo o rettificando situazioni e comportamenti che ci dispiacciono, ci indignano e ci offendono. La parola, come simbolo e testimonianza di un altro modo di vivere e costruire i rapporti di convivenza interpersonale, improntati ai valori della libertà e della solidarietà, è senza dubbio una modalità alternativa, “eversiva” e destabilizzante rispetto all’ordine oppressivo ed omertoso imposto dalla mafia. L’uso della parola rinviene un senso concreto ed acquista maggior vigore e consapevolezza, nella misura in cui può servire a violare le regole e il potere coercitivo della malavita organizzata, provando a fronteggiare e sconfiggere la diffusa mentalità mafiosa. Come dimostra (lo ribadisco ancora una volta) l’esperienza del celebre libro di Roberto Saviano, che esalta appunto il valore liberatorio della parola e della verità rispetto alla legge dell’omertà mafiosa.
L’argomento è estremamente difficile e complesso, per cui meriterebbe una dissertazione meno generica e superficiale, in quanto racchiude molte implicazioni di ordine storico-economico, socio-politico e antropologico-culturale e, se vogliamo, di carattere psicologico ed esistenziale. Insomma, il tema è alquanto delicato e controverso, perciò non può risolversi in analisi che potrebbero risultare sommariamente semplicistiche, quantunque riposino su presupposti validi e fondati.
Lucio Garofalo


 Redazione 

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