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Paolo Benvegnù “Le labbra” (La Pioggia, 2008) |
I migliori dischi italiani del 2008
di Pierluigi Lucadei
Tra i tanti dischi italiani scartati ascoltati letti percorsi vissuti riposti ripresi e riascoltati quest’anno, ho scelto i tre migliori: “Le labbra”, “Da solo”, “Canzoni da spiaggia deturpata”. L’ordine non è casuale. Benvegnù è primo indiscusso. Pubblica il secondo album solista a quattro anni di distanza dal primo e riesce a superarne la bellezza, impresa che sembrava onestamente impossibile. Il secondo posto è di Capossela, che in molti aspettavano al varco dopo il successo (anche) commerciale di “Ovunque proteggi”. “Da solo” è una magnifica raccolta di canzoni che ha saputo riscaldare l’autunno con la grazia dimessa di un pianoforte e di una voce ormai irrinunciabile. Terzo posto per l’outsider Vasco Brondi, in arte Le luci della centrale elettrica. Targa Tenco per la migliore opera prima, ammirazione da parte di colleghi, critici, pubblico: il suo disco è la cosa nuova più emozionante uscita in Italia negli ultimi dieci anni.
1 - Paolo Benvegnù “Le labbra” Etichetta: La Pioggia Dischi / Venus Brani: La schiena / Amore santo e blasfemo / La peste / Il nemico / La distanza / Interno notte / L’ultimo assalto / Jeremy / Sintesi di un modello matematico / Cinque secondi / 1784 Produttori: Guglielmo Ridolfo Gagliano e Andrea Franchi
L’ha fatto di nuovo. Ha aspettato quattro anni per dare un seguito al capolavoro “Piccoli fragilissimi film” e finalmente ce ne ha consegnato un altro. Il nuovo capolavoro si chiama “Le labbra” ed è così denso che già dopo i primi ascolti capisci che non te lo spiccicherai più di dosso. Undici canzoni che pesano come materia grave e bordeaux. Come il sangue che inizia a coagulare. Paolo non sa fingere e continua a cantare con la voce rotta dall’affanno, come se il cuore gli potesse scoppiare da un momento all’altro. Toglie la pelle alle sue emozioni, ne fa versi carichi di slanci e di inviti alla vita, contemplando anche la sconfitta e la perdita, non la resa.
«potrai dividere il mio corpo in parti uguali/in un istante che purifica/non c’è nessun confine che divida e illumini/la freccia e il suo bersaglio»
Con la sua musica crea un magma infuocato, in ogni momento aderente al reale e negli stessi momenti tendente al simbolico, un ribollire dalla bellezza obliqua, a tratti irresistibile. Tra amori privi di sé («depositare il seme/senza amare il campo/…/depositare il seme/mentre mi sto uccidendo») e amori metafore d’infinito («e la radio canta di una stella che sembrava irraggiungibile/come se il riflesso di uno specchio fosse il dato più attendibile»), il fluire di emozioni nelle loro diverse gradazioni non conosce sosta, dall’alfa all’omega Paolo sembra trattenere come spugna ogni frammento del suo vissuto sentimentale, non disperde una sola parola con l’intento omicida di rigettare tutto indietro su chi ha toccato, o soltanto sfiorato. Con una fede commovente nella verità.
Le parole, si diceva. Col loro valore incomprensibile e il loro senso da equivocare, sono il fragile ma necessario segreto da conoscere per vivere e rappresentare – perché da queste parti si rappresenta la vita – tutte le gradazioni dell’amore, che Paolo riesce persino a riassumere in un titolo programmatico, Amore santo e blasfemo («il mio amore è santo e blasfemo/perché ha toccato gli angeli/…/ed è crudele come immaginare/come scopare/come illudersi di ritornare/…/il mio amore è santo e blasfemo/perché conosce le parole/è lo sguardo d’abbandono prima di partire»).
Gli arrangiamenti fanno da ideale contrappunto, la batteria di Andrea Franchi de-sincronizza i battiti e l’incedere avvolgente delle chitarre li ricompatta in un unico sentire. Splendida la presenza degli archi e persino dei fiati, che portano taluni episodi in un territorio ricco di fascino in cui la canzone d’autore si imbatte nel free jazz. Momenti di debolezza non ce ne sono. L’intensità non abbassa la sua asticella neanche quando in apparenza tenta di farlo, nella sognante ambientazione di Interno notte o nella melodia pop di 1784, che in realtà non si fa scrupoli a delineare un ritratto di lirismo struggente («lei non ha più bisogno di credere/e accarezza le gambe ai suoi demoni/…/poi diventa luce che non tradisce nessuno/come fuoco che si sa fermare/…/e nei suoi occhi i miei sogni esplodono»). “Le labbra” è come ogni album dovrebbe essere, spietato e autentico. C’è poi il pezzo d’apertura che rende cenere tutto ciò che la musica italiana ci ha propinato negli ultimi mesi. Pensavamo che con Il mare verticale Paolo avesse toccato un vertice insuperabile e ora siamo smentiti nella maniera più bella possibile, perché La schiena è un sipario che si apre su quello che tutti hanno guardato almeno una volta ma che pochissimi sono riusciti a rendere con un turbamento d’animo così puro. Ci sono un uomo e una donna. Immersi nella verità che non riescono a far propria, nonostante sia proprio lì, intorno a loro. La poesia della cecità di coppia è per Paolo sempre sprono alla simmetria («è così che ogni goccia di me/scava la tua schiena lentamente/con un ritmo costante/è così che ogni goccia di te/scava la mia schiena lentamente/con un ritmo costante») e il non negarsi la verità, almeno nei cinque minuti della canzone, è specchio per la sua integrità e per la sua arte, ancora una volta toccata dalla grazia.
2 - Vinicio Capossela “Da solo”Etichetta: Atlantic / Warner Brani: Il gigante e il mago / In clandestinità / Parla piano / Una giornata perfetta / Il paradiso dei calzini / Orfani ora / Sante Nicola / Vetri appannati d’America / Dall’altra parte della sera / La faccia della Terra / Lettere di soldati / Non c’è disaccordo nel cielo
Dimentichiamo l’esuberanza scoppiettante e travolgente della prima parte di “Ovunque proteggi”, niente Brucia Troia e Al Colosseo. Dell’ultimo successo di Vinicio consideriamo invece la seconda parte, Dove siam rimasti a terra Nutless, Lanterne rosse e la title track: il suono del nuovo disco potrebbe partire da lì. Per lo più, nelle dodici canzoni di “Da solo”, i protagonisti sono voce e pianoforte. Nonostante i theremin e i mellotron, nonostante il maestoso Wurlitzer dell’iniziale Il gigante e il mago, l’album si erge sulle tenui trame di piano e si sostiene con le parole sussurrate e incasellate in versi di disarmante poesia. L’universo parallelo sul quale l’ascoltatore viene trasportato – universo tematico e musicale – non è caleidoscopico come al solito, è meno laido, Vinicio non sbava, anzi ricuce gli strappi, sutura i tagli, piange davanti alla sua finestra con vista luna. Ci sono molte lacrime nelle nuove canzoni e proprio le lacrime sono il trait d’union dell’intero lavoro, perché chi non conosce la via alla commozione difficilmente metterà “Da solo” tra i migliori dischi di Vinicio e tra i migliori dischi degli ultimi anni, mentre chi non teme di battere la via della commozione nell’opera creativa troverà almeno un pugno di episodi di vertigine assoluta.
“Da solo” è un album di canzoni splendide sin dai titoli (Il paradiso dei calzini, Dall’altra parte della sera, Non c’è disaccordo nel cielo), in cui l’amore fa da spauracchio ai demoni, ridicolizza il terrore, scaccia il nero e ovunque protegge. Canzoni per la notte e per l’inverno. Luminose come piccole candele per orientarsi al buio, calde come stufette a petrolio per placare i brividi. Al primo ascolto resta impressa la tenera metafora de Il paradiso dei calzini, perfetta per i film più fiabeschi di Tim Burton: come i calzini si divertono a spaiarsi e perdersi e non c’è possibilità di ritrovarli se non in un’ideale paradiso dei calzini, così «dov’è andato a finire il tuo amore/quando si è perso lontano dal mio/dov’è andato a finire nessuno lo sa/ma di certo si troverà là». Ripetendo gli ascolti sono però altri i pezzi che si fanno amare incondizionatamente. Il procedere «senza meta», cieco, sfinito, piegato dal dolore lancinante di Orfani ora («nuda sei tu/il mondo ora è nudo se non lo copre il tuo amore/siamo orfani ora/io te e la strada/se non ci divide il buio/ci tradirà sempre la luce») è uno dei due punti più alti di questo disco. La grandezza dell’amore sta nel saper illuminare e scaldare anche quando se ne va e ti lascia «senza ali e senza te». I desideri non più soddisfatti, le camere spoglie, i vuoti beanti regalano al cantautore sulla via per commuoversi l’ispirazione per un’altra perla, Parla piano, nella quale trovano posto la delusione e la necessità del vero: in ogni parte di sé e in ogni angolo della coppia il crollo delle emozioni tradite somiglia a una resa sotto la pioggia («sopra il volto tuo/pago il pegno di rinunciare a me/non sapendo dividere/dividermi con te»).
Sulla via della commozione si incontra l’altro apice del disco. Si tratta di Lettere di soldati, in cui Vinicio giganteggia con disarmante poesia per raccontare di «piccoli soldati, piccoli e armati» che quando «il cielo è soltanto una feritoia» sul campo di battaglia, tra l’angoscia e il coraggio, si aggrappano alla vita e all’amore. Per spezzare l’intensità dei pezzi fin qui citati, ci sono momenti più leggeri, il divertissement di Un giornata perfetta e gli sguardi increduli e ragazzini dei due brani americani, Vetri appannati d’America, lo stupore di fronte alle fanfare di un mondo tanto lontano quanto povero, e La faccia della Terra, ossia i “Racconti dell’Ohio” di Sherwood Anderson riletti con l’aiuto dei Calexico. Solo spiragli di una luce obliqua che illumina il viso di Vinicio a metà, come nella copertina. Ma per orientarsi al buio denudato dai settanta minuti di “Da solo” basterebbero le flebili fiammelle di Orfani ora, Parla piano e Lettere di soldati. Il rapimento che parte da lì avvicina ogni inverno pronto ad arrivare, lo fa ebbro, lo rende fratello.
3 - Le luci della centrale elettrica “Canzoni da spiaggia deturpata”Etichetta: La Tempesta Brani: Lacrimogeni / Per combattere l’acne / Sere feriali / Stagnola / Piromani / La lotta armata al bar / La gigantesca scritta Coop / Fare i camerieri / Produzioni seriali di cieli stellati / Nei garage a Milano Nord Produttori: Giorgio Canali, Max Stirner, Vasco Brondi
Evviva! Con dieci canzoni scorticate e un poco sghembe Vasco Brondi in arte Le luci della centrale elettrica fa piazza pulita di tutte le voci che negli ultimi anni hanno infestato l’indie senza avere nulla da dire. Era da troppo tempo che non sentivamo un autore di questo carisma. Da tempo immemore che non ci emozionavamo per un demo fatto in casa, e ora il disco vero e proprio nel nostro lettore – un bel po’ abbellito rispetto al demo – ci conforta sulla capacità di questo ragazzo ferrarese di raccontare il rovescio dei suoi anni, il lato grigio delle stanze tardo-adolescenti, il gusto cancerogeno di tante vite svendute al nulla. Che poi Vasco Brondi non fa nulla di eccezionale, le sue sono canzoni cantautorali in senso classico, voce e chitarra acustica, sporcate un po’ con l’aiuto di Giorgio Canali, qui in veste di produttore e chitarrista. Musicalmente come un costola acustica del “Tutti contro tutti” urlato l’anno scorso dallo stesso Canali, “Canzoni da spiaggia deturpata” ne assorbe la rabbia ed è capace di rilanciarla con un registro mai unico anzi multiforme, che sfuma in maniera impercettibile dal realismo («gli spacciatori tunisini affittano camere di alberghi vicini alle stazioni») al surrealismo («portami a bere dalle pozzanghere», «lavarsi i denti con le antenne della televisione durante la pubblicità») al grottesco («e si fermavano i tram per deridermi»). Vasco non è neanche immune da fascinazioni e rimandi fin troppo palesi: “Altri libertini” di Tondelli, “Pompeo” di Andrea Pazienza, “Pennyroyal Tea” di Kurt Cobain e “Last Exit” di Eddie Vedder, “Emilia paranoica” dei CCCP, e poi, in rigoroso ordine caotico, Paolo Benvegnù, Bright Eyes, Pasolini, Emidio Clementi, Mario Desiati, Rino Gaetano sono parte integrante della deturpazione. Eppure basterebbe la sola Per combattere l’acne a rendere chiara la differenza che corre tra un certo modo asettico e apolitico di fare rock e questo spudorato bisogno di alzare la voce piegando la poesia al servizio della quotidianità irrespirabile della provincia, coi suoi meccanismi rotti da tempo e le facce prive di illusioni e sogni. I personaggi che si incontrano da queste parti hanno il male radicato dentro, lo stile di vita dettato direttamente da membra marce. «Siamo l’esercito del SERT» gridano mentre si rotolano nel loro fango e sono così veri e curvi da far impallidire i «cavalieri sieropositivi» di Manuel Agnelli. «Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero» è la domanda che rimbalza da La lotta armata al bar all’intero lavoro, fino a diventare ideale sottotitolo del disco. Forse saremo costretti a raccontare proprio storie come queste, se «stelle deficienti» e «amori interinali» portano solo alla sterilità. Considerato come un unico rigurgito di parole e immagini, venuto fuori tutto insieme, diretto e senza palliativi, espresso nell’unico modo in cui poteva essere espresso, con l’approccio di chi sa che sta facendo qualcosa di necessario e vitale anzitutto per sé, un lavoro come questo sarà difficile da ripetere. Perciò auguriamo a Vasco di non rimanere ancorato qui e per il suo futuro di sapersi reinventare autore da capo, come se “Canzoni da spiaggia deturpata” non ci fosse mai stato.
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Pierluigi Lucadei
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in Vetrina |
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il 22 Dec 2008 alle 13:59 |
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