La Palestina di Enrico/5
Una mattinata al campo profughi Dheisheh che da 60 anni accogliere i palestinesi esplusi dai propri villaggi
Il campo profughi Dheisheh si trova a sud di Betlemme: è stato stabilito nel 1949 dopo la guerra arabo-israeliana per accogliere i palestinesi espulsi dai propri villaggi dalle forze armate israeliane. Almeno 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, una tragedia scomoda per la propaganda israeliana, ma che i cosiddetti “nuovi storici israeliani” (gruppo di intellettuali che ha intrapreso un esame critico e documentato della storia di Israele per sfatarne i principali miti nazionali) hanno portato alla luce. Ora è assodato che l’esercito israeliano nel ’47-’49 ha compiuto una pulizia etnica ai danni degli autoctoni palestinesi al fine di rendere il nuovo stato il più possibile “ebraico”. Oggi i rifugiati palestinesi, ormai alla quarta generazione, sono milioni e molti di loro vivono ancora nei campi profughi grazie all’assistenza dell’UNRWA (Agenzia ONU). Nonostante il diritto internazionale e varie risoluzioni delle Nazioni Unite sanciscano il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno nelle proprie case, Israele si è sempre rifiutato di acconsentire. La ragione è ovvia: mantenere la maggioranza ebraica all’interno dello stato israeliano rispetto alla presenza palestinese.
Il Dheisheh è sovraffollato, come tutti campi profughi: oltre 10 000 persone ammassate in un km². Inizialmente le famiglie vivevano in tende, poi l’UNRWA ha costruito le prime abitazioni, un solo piano di 9 m² per famiglie numerose. Lo spazio non bastava, così si è cominciato a costruire in altezza. Dalla Prima Intifada (‘87) fino agli accordi di Oslo (metà anni Novanta) il campo è stato circondato da una rete, con una sola via d’uscita e il coprifuoco imposto a partire dalle 19.
Passeggiando per le strette viuzze del campo si intravedono le scritte che inneggiano alla resistenza, i murales che ricordano i martiri e i combattenti. Addirittura sono rimaste sui muri le scritte in ebraico che i soldati israeliani usavano durante la Prima Intifada per orientarsi nelle incursioni al campo, al tempo roccaforte del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Spazzatura ovunque, avanzi di case, vie dissestate, voci che si accavallano, mancanza assoluta di spazio: tutto rimanda ad un senso di precarietà che noi non possiamo comprendere. L’identità dei profughi è modellata prima di tutto dal senso di sradicamento. Provate ad immaginare: questi ragazzi son nati rifugiati, cresceranno ascoltando le memorie degli anziani sul magnifico paese che han dovuto lasciare, ormai nient’altro che un cumulo di pietre, e moriranno con la speranza di vedere i loro figli tornarci.
Dopo il giro nel campo visito l’associazione palestinese “Lighting candles”, che si propone di fornire un più alto livello educativo ai ragazzi (spesso vittime di traumi psicologici e fisici) attraverso varie attività creative. Hamdan, il responsabile dell’associazione, combatte ogni giorno sulle stampelle la sua battaglia per sopravvivere in questa terra dove le esigenze di un disabile non sono certamente la prima delle preoccupazioni. Oggi un volontario canadese insegna la capoeira (lotta-danza brasiliana di origine africana) ai ragazzi, curiosi e disorientati da quei strani movimenti scanditi dal ritmo festoso e deciso della musica. Mentre i ragazzi eseguono le acrobazie della danza liberatoria, divertiti e spensierati, i caccia israeliani squarciano il cielo inchiodandoci di nuovo alla cruda realtà del campo profughi, dell’oppressione.
Per i ragazzi l’occupazione è ormai la normalità, non ci fanno più caso, quasi fosse una necessità naturale. Mentre continuano allegri la danza, non posso fare a meno di pensare alla loro infanzia negata solo perché cresciuti nella parte sbagliata della terra, un “incidente geografico”. Loro, già uomini a dodici anni.
Seguo il corso di questi pensieri e quasi mi vergogno di esser cresciuto nell’opulenza sfacciata della società occidentale: sono stato la vittima fortunata di un incidente geografico, e non ho fatto nulla per meritarlo. Il campo Dheisheh mi ha insegnato ancora una volta la scomoda realtà che il benessere dei pochi viene edificato sulla pelle dei più: e non di geografia si tratta, ma di storia, di volontà egemoni, di interessi economici dominanti. Enrico Bartolomei
Pubblicato il 5/2/2009 alle ore 09:57 da provincia.ap.it
|