La Palestina di Enrico/4
Alla veglia giornaliera nel Suq Shab di Beit Sahour la solidarietà si mescola al dolore
Appresi dell’attacco israeliano alla Striscia di Gaza durante una riunione tra i dirigenti dell’Alternative Information Center, qui negli uffici dell’associazione a Beit Sahour, nel cuore della Cisgiordania. Subito il dibattito si sciolse, ognuno si alzò dalla propria sedia guardandosi attorno spaesato, scambiandosi brevi frasi sconclusionate, muovendosi quasi spasmodicamente. Passato il primo momento di incredulità, in cui ci si nega che un fatto sia realmente accaduto, lentamente si prende coscienza della realtà e ci si prepara alla reazione. Le bombe già lasciavano sotto le macerie i cadaveri di decine di palestinesi, mentre la propaganda ufficiale spiegava che si trattava di “risposta”, di “reazione”, di “difesa” agli attacchi dei “terroristi”. Al Jazeera invece, avrebbe mostrato fin dal primo giorno le immagini dei corpi dilaniati, le macerie e la distruzione, la disperazione della gente: la frustrazione e l’angoscia di essere solo uno spettatore di quei massacri non mi lasciava tregua. La sensazione di sfiducia e di impotenza era devastante. La rabbia montava: pugni stretti e mascella serrata erano l’unico sfogo. Che fare?
L’idea è nata quasi da sé: una veglia giornaliera, alle 18, nel Suq Shab (“mercato del popolo”), per testimoniare insieme il lutto e la solidarietà agli abitanti di Gaza, imprigionati nell’area più densamente popolata del mondo, sotto embargo da mesi ed ora tartassata dai colpi dell’aviazione israeliana senza alcuna possibilità di scampo. Palestinesi ed internazionali, membri di associazioni o semplici cittadini, si sarebbero riuniti ogni giorno alla stessa ora fino a quando gli attacchi non fossero cessati.
I primi giorni eravamo una ventina in cerchio davanti al fuoco, ognuno con una candela in mano. I momenti di esaltazione dei canti patriottici si alternavano agli sguardi cupi, fissi sulle fiamme. Le vampate del fuoco incavavano i volti esaltando ulteriormente la drammaticità di quelle facce avvilite, di quei silenzi infiniti. Nei giorni seguenti il numero dei partecipanti e delle bandiere è cresciuto sempre di più. Spesso le candele venivano disposte a terra a formare la scritta “Gaza”, in arabo e in inglese. Una volta siamo saliti fino alla piazza davanti alla Chiesa della Natività, a Betlemme, per unirci agli abitanti della città. Il lutto prevaleva sulla protesta. Le bandiere nere sovrastavano quelle palestinesi. Tutti quei morti non erano altro che statistiche, numeri, notizie, per la maggior parte degli abitanti del mondo. Ma qui quei morti hanno un nome, una faccia, sono storie di esseri umani con le loro speranze, le aspirazioni, le sconfitte, le fatiche di un’intera vita seppellite sotto cumuli di macerie. A volte mi sembrava di non poter contenere tutto questo dolore, volevo vomitarlo in un urlo liberatorio, scagliarlo fuori in un gesto di rabbia disperata. Eravamo tutti fuochi che ardevano dentro.
In quei giorni ho cercato freneticamente di fare tutto il possibile per rompere il muro di silenzio e ipocrisia che legittimava l’attacco israeliano agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Manifestazioni in Palestina e in Israele, articoli, traduzioni, interviste, discussioni concitate, ma tutto era troppo poco. Per me era chiaro che non era stato Hamas a rompere la tregua, che sotto le macerie ci finivano i civili (un terzo delle vittime saranno bambini), che le ragioni dell’attacco israeliano in realtà fanno parte di una strategia militare (la pulizia etnica dei palestinesi) e di una visione ideologica (il sionismo) di lungo periodo, che la storia andava raccontata dall’inizio per fornire agli avvenimenti la giusta contestualizzazione (vi hanno raccontato l’embargo su Gaza, le centinaia di palestinesi morti per mancanza di adeguate cure mediche? Vi hanno detto dell’occupazione militare che dura da 41 anni? Che sapete della colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi, del Muro e delle strade dell’Apartheid, dei checkpoint, degli arresti arbitrari, dei rifugiati?).
Ora che la veglia è stata sospesa, ancora risuonano nella mia testa le parole del poeta palestinese Tawfiq Zayyad, ora diventate inno patriottico: “Non ho mai svenduto il mio paese / son stato sempre pronto a servirlo / ad affrontare l’invasore con fermezza e coraggio / orfano disposto a morire”.
Troppa polvere è stata sollevata al cielo, e troppe grida. Ora rimane solamente il nostro silenzio colpevole.
Pubblicato il 28/1/2009 alle ore 17:56 da provincia.ap.it
|