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La Palestina di Enrico/8

La cronaca dell'ennesima dimostrazione nonviolenta contro l'erezione del Muro repressa dall'esercito israeliano

9 marzo
Oggi vado con altri attivisti internazionali nel villaggio di Ni’ilin che, come Bil’in, Jayyous, Um Salomona, porta avanti dimostrazioni nonviolente contro l’espropriazione delle terre del villaggio per la costruzione del Muro dell’apartheid e delle colonie israeliane.

Da Beit Sahour prendiamo un taxi collettivo dopo aver contrattato il prezzo per almeno un quarto d’ora: 100 shekel (circa 20 euro) e il tassista si è guadagnata la giornata. Il tragitto in linea d’aria sarebbe di circa trenta chilometri ma, a causa del Muro, delle colonie e di tutte le aree inaccessibili ai palestinesi, il percorso triplica. Superiamo quattro checkpoint e le solite domande dei soldati (“Da dove venite?” “Dove andate?” “Che fate in Israele?” “Non sapete che gli arabi sono pericolosi?”) cui fanno seguito le nostre solite risposte (“Siamo turisti, andiamo a vedere Gerico”, “Come scusa? Guarda che qui non siamo in Israele ma nei Territori palestinesi…”). A seconda del mio umore i possibili pensieri davanti ad un soldato sono due. In umore nero: "Mi vien voglia di farti provare sulla tua pelle cosa significa umiliare!". In umore pacifico: "Mah…in fondo ti ritrovi a fare questo mestieraccio, a eseguire ordini e forse neanche ti rendi conto di quello che fai". Proseguiamo costeggiando il tragitto del Muro che si snoda a rubare le terre migliori, ad inglobare le colonie più grandi, a tagliar fuori le zone abitate da palestinesi. Insomma, impieghiamo più di un’ora.

Siamo in anticipo e ne approfittiamo per bere un caffé con gli abitanti del villaggio, mentre il muezzin richiama i fedeli alla preghiera. Da quando sono cominciate le consuete manifestazioni di protesta, Ni’ilin è diventata la cresta dell’onda della resistenza nonviolenta in Palestina, e qui la repressione dell’esercito israeliano è particolarmente brutale. L’ultimo ragazzo è stato ucciso dall’esercito durante le manifestazioni di protesta contro il massacro di Gaza. Vado dal fruttivendolo a comprare cachi, polpa soda, non troppo dolci, nutrienti e dissetanti: un ottimo spuntino in una giornata così calda. Il proprietario, appurato che sono qui per la dimostrazione, ci tiene ad indicarmi il poster affisso all’ingresso della sua bottega raffigurante suo cugino in tipica "posa del martire": mitra in mano, sorriso risoluto e la Moschea di Gerusalemme alle spalle. L’esercito israeliano lo ha ucciso qualche mese fa. La conta dei martiri cresce, ma l’occupazione è sempre più crudele.

Dopo la preghiera comincia la marcia verso la recinzione che segna il tracciato dove verrà costruito il Muro dell’apartheid. L’ambulanza e il personale della Mezzaluna Rossa è pronto a raccogliere i feriti. Oltre la barriera di filo spinato si stendono le colonie israeliane, centinaia di villette a schiera, tutte simili come fossero soldati anche loro: avide avanzano a rubare la terra che generazioni di palestinesi avevano dedicato alla pastorizia e all'agricoltura. Ci avviciniamo al filo spinato della recinzione, passo deciso e pugni stretti. Tentiamo di rimuoverlo, di gettare sassi in mezzo alla strada per ostacolare le jeep dei militari. L’esercito risponde con gas lacrimogeni, granate assordanti. I soldati avanzano e noi indietreggiamo, gli scontri si spostano tra gli alberi di ulivo, diventa pericoloso e desta inquietudine sapere di essere visti dai soldati e non poterli vedere. Comincia il lancio di sassi, perlopiù sono ragazzi dai 14 ai 20, gli shabab. Si usano le mani, o fionde rudimentali. Quei sassi innocui che non feriscono contro uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo: sembra assurdo continuare, ma fin quando c'è fiato in gola bisogna urlare la propria rabbia sana, sudarsi la propria dignità, costi quel che costi. I soldati avanzano fin dentro il villaggio, iniziano a sparare proiettili in acciaio rivestiti di gomma e munizioni a salve: comincia la repressione brutale.

Soldati e jeep militari invadono il villaggio, la sassaiola si spegne, le botteghe chiudono, la gente si ritira nelle umili casette di pietra. Saliamo al volo sul primo furgone che lascia il villaggio, direzione Ramallah, mentre il personale medico della Mezzaluna Rossa conta i feriti. La paura è esser presi e rispediti in Italia come "ospite indesiderato", per 10 anni.

Il furgone alza la polvere della strada, veloce scorre dal finestrino la Palestina rurale, riarsa dal sole. Facciamo conoscenza con i palestinesi nel furgone: risa, strette di mano, pacche sulle spalle. Comincia un'altra storia.

Enrico Bartolomei

Pubblicato il 16/3/2009 alle ore 15:42


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