La Palestina di Enrico/7
La vita scorre a ritmi da noi ormai dimenticati e l'imprevisto è la normalità per chi non è padrone del proprio futuro
Vivo al centro del paese vecchio di Beit Sahour: dalla finestra scorgo il minareto della moschea e il campanile della chiesa. Le prime mattine mi svegliava la dolce melodia della preghiera del muezzin. Ore 5. Mezz’ora di invito alla preghiera, nel torpore mistico del dormiveglia, mentre il chiarore dell’aurora bussa alle porte della notte.
La luce di questo posto è accecante. Luce del sole, luce riflessa dalle pietre bianche delle case, dalle rocce. Poi d’improvviso spunta la luna, e si fa buio. Tutto accade in pochi minuti. Dal bagliore all’oscurità, senza compromessi. La notte è scura, si vedono le stelle, la luna brilla vicina, sembra quasi voglia accarezzare la terra.
L’odore del caffè arabo, dei felafel che friggono, la puzza di polli morti e d’immondizia ai bordi delle strade o bruciata nei cassonetti. La musica è onnipresente, gli animi si infiammano se c’è la dabka, la musica tradizionale. Tè alla menta e narghilè alla frutta, la sera, come medicina contro l’occupazione israeliana che avvelena ogni aspetto della vita.
Il tempo è dell’uomo, appartiene (nei piccoli paesi, in campagna) alle relazioni sociali. Non puoi programmare un attività e subordinare tutto il resto. Il caffè sorseggiato in compagnia, i saluti lunghi e calorosi, le visite in famiglia, la vicinanza fisica, i rituali sociali: sono tappe obbligatorie, momenti rilevanti della vita quotidiana della società palestinese.
Si riscopre con piacere che il passo affrettato, lo sguardo ossessivo all’orologio, l’individualismo e l’arrivismo sono gli effetti squilibrati delle nostre società malate, dove le persone agiscono spesso per fini estranei, alieni alle autentiche esigenze umane. Il rispetto ansiogeno di scadenze, date, impegni rende l’uomo occidentale schiavo del tempo, suddito dei suoi principi e delle sue regole. Il tempo deve essere battuto, superato, anticipato. Ottimizzato. Altre volte va ammazzato. Qui invece è una categoria molto più flessibile, soggettiva, plasmabile nella forma e nei contenuti dall’agire umano che gli conferisce significato. Tutto questo però sta cambiando, basta andare a Ramallah o a Gerusalemme Est per accorgersi del mutamento: dal tempo dell’uomo al tempo del denaro.
La pioggia regala sempre gioia, agli uomini ed alla terra. La neve è un evento strano, quasi alieno: tutto si ferma, anche se il candido manto è di pochi centimetri. Nessuno osa affrontarla, niente qui è concepito per far fronte a questo evento raro ed effimero: non appena i fiocchi toccan terra già senton nostalgia di tornare al cielo.
L’acqua è risorsa fondamentale. Si immagazzina, si invoca, si fa la guerra per l’acqua. Israele controlla ed utilizza le risorse idriche dei Territori palestinesi, a scapito degli autoctoni. Un colono israeliano consuma 5 volte tanto rispetto ad un palestinese. Da quando son qui, l’acqua c’è una settimana si e l’altra no. Chi ha abbastanza barili di riserva neanche si accorge della carenza, i più sfortunati invece ne fanno semplicemente a meno. Quando esce dai rubinetti, è come se colasse oro.
Dalle cinque la vita comincia a ritirarsi, a diminuire di intensità: lentamente scompaiono i colori e le voci del mercato, le botteghe chiudono, vuote son le sedie dove i vecchi giocano a tawla zahr, fino a quando mi ritrovo solo per le stradine della città vecchia di Betlemme che sembra completamente disabitata. Sono appena le 7. Sui muri i poster dei martiri e i fori dei proiettili rievocano i giorni dell’assedio israeliano alla Chiesa della Natività, durante la primavera del 2002, in piena Seconda Intifada.
Le vecchie abitazioni di pietra, in armonia perfetta con il paesaggio rurale palestinese, lasciano il posto agli scempi dell’urbanizzazione scriteriata, delle città che avanzano e mangiano la terra. Gli ulivi soccombono al cemento armato.
Parti e non puoi mai sapere se e a che ora arrivi. Tutto è intriso di un senso di precarietà misto a rassegnazione. Se finisci in prigione non sai perché, se aspetti due ore ad un checkpoint nessuno ti dà spiegazioni. Devi convivere con il senso di umiliazione. Non si è padroni del proprio futuro, non si può progettare alcunché. L’imprevisto è la normalità, non ci si preoccupa mai più del necessario, “in qualche modo” ce se la cava sempre. Sopravvivere in regime di apartheid è una sfida quotidiana. Anche l’orizzonte è stato rubato: la vista si schianta contro quel maledetto muro di cemento armato.
Enrico Bartolomei
Pubblicato il 2/3/2009 alle ore 13:39
|