IL PERU' DI SERENA
Visitare la mostra sui crimini del passato è per molti occasione per rievocare ricordi e denunciare ingiustizie/25
15/5/2007 - La mostra “Los Cabitos” approda a San Juan de Lurigancho (seconda parte) Un’assistente sociale, incuriosita, viene a visitare la mostra. Ci fermiamo alcuni minuti a conversare, mi dice che quella che stiamo promuovendo è una bella iniziativa, però le sembrerebbe più utile risolvere, prima, alcuni problemi basici che colpiscono la popolazione. Io rimango senza parole quando mi racconta che la maggior parte dei bambini e degli anziani è affetta da tubercolosi, che la gente mangia cibo che costa poco e che non ha valori nutritivi e così continua ad ammalarsi. Mi dice che per le trentamila persone di Cruz de Motupe c’è solo un “ospedale” con due medici ed un’assistente sociale, cioè lei. Continua spiegando che il Governo le impone di far compilare alle famiglie che hanno bisogno di assistenza molti documenti e che lei, da sola, non riesce a fare bene il suo lavoro. A malapena riesce a sistemare le pratiche burocratiche. I dati parlano di San Juan come di una società dove il livello di educazione é basso mentre quello di alcolismo e di violenza familiare é elevatissimo ed i bambini sono le grandi vittime di tale situazione.
Si sfoga, le trema la voce e mi dice che le ONG dovrebbero fare qualcosa, visto che a livello politico fino ad ora si é aumentato solo il “gap” tra ricchi e poveri, questi ultimi sempre meno tutelati. Mi confida che i dirigenti non fanno nulla per la popolazione e che invece c’è bisogno di persone che si mettano a servizio dei più deboli e che si impegnino a migliorare la qualità umana. Insisteva molto sull’aspetto umano, non ha mai parlato di economia o di strutture, sempre di umanità. Significherà qualcosa? Forse le due componenti sono strettamente correlate, forse noi del “nord” abbiamo focalizzato così tanto l’attenzione sull’aspetto economico che la parte umana si tralascia e, ciò che é peggio, pretendiamo di esportare il nostro modello in zone come questa creando disastri sociali irrimediabili.
Nel pomeriggio ho il piacere di incontrare la signora G., una donna molto impegnata nella vita sociale della comunità. Collabora nel mantenimento del “comedor popular” (una mensa pubblica, in cui si cerca di garantire almeno un pasto al giorno ai più poveri) ed é una delle dirigenti del “Vaso de leche”. Quest’ultima é una sorta di campagna sociale, trasformatasi poi in organizzazione di base, che cerca di assicurare una “tazza di latte” (da qui il nome) ai bambini delle famiglie con meno possibilità. Queste associazioni diventano di fondamentale importanza in realtà come quella di San Juan in cui lo Stato e il Governo hanno difficoltà ad arrivare. La signora è conosciuta e ci aiuterà a diffondere le informazioni della mostra, soprattutto all’interno dei “desplazados ayacuchanos”.
Anche lei si ferma “un rato” (un attimo) a raccontarmi la sua storia. Ho come l’impressione che la gente, qui, nonostante voglia dimenticare, abbia bisogno di parlare e di essere ascoltata. La signora G. frequentava il collegio quando la arrestarono. Senza ragione. Solo perché era di Ayacucho, conosceva il quechua e studiava, elementi che all’epoca erano considerati sufficienti affinché una ragazza fosse considerata terrorista. Inoltre, alcune ragazze di buona famiglia delle sua scuola, con le quali non andava d’accordo, dissuadettero il preside dal presentare i documenti per scagionarla. Così restò alcuni giorni in questura, dove la interrogarono e cercarono di farle ammettere le sue simpatie per Sendero. Mi dice a voce alta che in queste circostanze bisogna essere “valienti”(coraggiosi). “Quando mi interrogarono io dissi che non avevo nulla da nascondere e che se volevano potevano uccidermi, io non avevo paura.”
Alla luce di quello che accadde in seguito, si rende conto che l’avrebbero potuta uccidere senza che avesse commesso alcun crimine: mi spiega che fu liberata perché il vicepreside fece pressioni sui militari dimostrando che lei non aveva nessun vincolo con il terrorismo. Abbassa lievemente la voce e mi confida che molti altri suoi coetanei non hanno avuto la sua fortuna e dal carcere non sono più usciti. Mi saluta e mi promette che informerà le persone del “comedor” e porterà le sue vicine. Sembra felice che siamo arrivati fin qua.
La giornata volge al termine, adagio inizio ad accostare le gigantografie alla parete con la testa sovraffollata di pensieri. (da www.provincia.ap.it) Serena D’Angelo
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