La Via Crucis dell’integrazione: intervista a Piersandro Pallavicini
di Pierluigi Lucadei
“L’immigrazione e il razzismo come non erano stati ancora raccontati” recita la fascetta promozionale Feltrinelli che accompagna “African Inferno”, l’ultimo romanzo di Piersandro Pallavicini, ricercatore di chimica presso l’Università di Pavia e prolifico scrittore. Tra i suoi titoli vanno almeno ricordati “Il mostro di Vigevano” (1999) e “Atomico Dandy” (2005). Con “African Inferno” Pallavicini è però riuscito a condensare meglio che altrove le tematiche a lui care, regalando ai lettori trecento pagine spassose ma anche uno dei romanzi più interessanti dal punto di vista sociologico - oltreché letterario - di questo 2009. Abbiamo rivolto all’autore alcune domande.
Qual è il vero inferno? L’integrazione? La convivenza? La sopravvivenza? L’inferno è quello degli africani in Italia, a causa della schiera di pregiudizi degli italiani e delle leggi, che tendono a escludere e a rendere difficile il lavoro e la vita normale in Italia. L’inferno è però anche quello degli italiani che vivono un rapporto non superficiale con gli africani, perché anche loro hanno una schiera di pregiudizi lunga così nei nostri confronti. Allora essere amici o amarsi diventa difficile. Una Via Crucis. La sopravvivenza? No, si sopravvive, si vive, da immigrati. Non è quello il problema, almeno se guardiamo i grandi numeri, la statistica, cioè l’immigrazione regolare, e non i casi d’emergenze, la clandestinità. Il problema è vivere qui, sentendosi pari e non inferiori.
Ad un certo punto Modestin chiede “Cosa avete voi bianchi, che se non ci prendete a calci allora sapete trattarci solo come dei figli scemi?”: è questo l’atteggiamento che abbiamo nei confronti dei nostri amici neri? Sì, questo è l’atteggiamento medio. O ci si chiude in un rifiuto anche violento, anche sgarbato, secondo l’equazione immigrazione = clandestinità = delinquenza, o ci si sente dalla parte degli immigrati con un senso di paternalismo stucchevole, secondo l’altra equazione immigrazione = sofferenza = animi buoni. La cosa curiosa è che questo duplice atteggiamento viene esercitato verso chiunque, anche verso chi palesemente appartiene a tutt’altro ambito: per esempio nostri colleghi di lavoro, un medico all’ospedale, un impiegato in banca. E’ la pelle nera che ci fa scattare l’automatismo.
Gli immigrati coprotagonisti del libro non sono quelli tipici dell’immaginario collettivo, irregolari, con lavori faticosissimi o al massimo vu cumprà, ma professionisti o, nel caso di Joyce, artisti. Quanto può essere privilegiato l’approccio che hanno questi immigrati con l’Italia e col suo mondo del lavoro, se paragonato agli immigrati dell’immaginario collettivo, poco o nulla inseriti nel tessuto sociale del nostro Paese? Dici bene: parli di immigrati nell’immaginario collettivo. Se vai a guardare la realtà, se guardi le fabbriche, gli uffici, le scuole, le farmacie, ti accorgi che di immigrati è pieno, e che svolgono lavori o hanno vite del tutto analoghe a quelle degli italiani. Stessi stipendi, stesse case, stesse scuole per i figli. Di nuovo, è la statistica che dovremmo guardare, non i telegiornali a caccia di stupri e cadaveri. Ritorniamo al punto precedente: puoi anche essere laureato, ma se sei nero, il medio italiano ti guarda storto o ti tratta come un figlio scemo. Quindi l’approccio con l’Italia anche degli immigrati con le posizioni sociali migliori è, in generale, faticoso, imbarazzante, pieno di scogli e di umiliazioni.
L’impressione comunque è che la situazione reale sia molto peggiore di come viene descritta nel libro. Impressione sbagliata. Impressione che deriva da titoli, allarmismo, giochi politici. Non che il disagio e le difficoltà non ci siano, ma se senti parlare solo di quelli, ossessivamente, alla fine pensi che esistano solo quelli. Sarò proprio io a essere un caso unico se dico che il mio farmacista è africano, il mio miglior dottorando in università è sudamericano, il medico che mi ha operato l’anno scorso era africano pure lui? Sarà un caso unico che mia figlia sia all’asilo con bambini di tutti i colori, appartenenti a famiglie del tutto normali? Non credo. E allo stesso tempo non credo anche molti sappiano, per esempio, che il parlamento italiano conta su un deputato nato in Congo. Si chiama Jean-Leonard Touadi, è un intellettuale, un fine pensatore. Ma non lo sa nessuno. E caso strano, tutte le volte che in TV si parla di “problemi” connessi con l’immigrazione, mai una volta che ci sia lui. Eppure sarebbe il più accreditato, no? Invece ci sono Crepet, Flavia Vento, Giordano... i soliti. Che non sanno niente di immigrazione, per di più. Che ragionano, per carità, ma spesso senza esperienza diretta.
Credi che i media abbiano responsabilità gravi nella percezione spesso distorta che gli italiani hanno dell’immigrazione? Eh sì. Direi. Riprendo quanto detto ora: possibile che in TV non passi mai una volta un immigrato che sia anche intellettuale, che abbia una buona posizione, che abbia cose intelligenti da dire da un punto di vista certamente più credibile che non quello del politico italiano di turno? Finché non si comincia a mostrare questa faccia – la faccia colta e benestante – dell’immigrazione, i cervelli degli italiani saranno pieni solo di bambini con gli occhi sporgenti e la pancia gonfia. O tutt’al più di rumeni col coltello pronto in tasca.
Quando, in uno dei punti cruciali del romanzo, Sandro firma il falso contratto per Richard sembra incarnare la risposta perfetta all’invito gridato da Manuel Agnelli a Sanremo: “adesso fa qualcosa che serva/che è anche per te se il tuo paese è una merda”. Sei d’accordo? E ci vedi un po’ di Sandro in quei versi degli Afterhours? Mah... Il trasgredire le regole, quando sono insensate o controproducenti, sembra essere cosa intelligente e utile, giusto? Ma le regole, anche quelle che ci sembrano sbagliate, esistono, ed è etico rispettarle. Qui siamo di fronte a un romanzo, e Sandro è perso sia in un “amore fraterno”, non ricambiato, verso i suoi amici, sia in una specie di trip avventuroso, dove trasgredire certe leggi lo riporta agli esordi con afflato rivoluzionario della sua vita di giovane uomo. Si possono fare cose che servono, anzi si deve, per far diventare un po’ meno merda questo paese. Ma le si può fare anche dentro la legalità.
Mi piacerebbe che dicessi qualcosa in più sul personaggio di Marisa, la moglie di Sandro, che rimane sempre sullo sfondo tranne poi irrompere con dolcezza, intelligenza ma anche con grande decisione, in uno dei passaggi più commoventi del romanzo. Marisa è il simbolo, per me, della donna intelligente e emancipata. Della donna moderna. Che dall’esperienza del femminismo ha tratto i valori dell’indipendenza, e della coscienza della pari dignità, pari ruolo. Ma che non si è fatta portare nei territori dell’odio e del rancore. E’ una persona che capisce che il proprio matrimonio è finito, magari anche in base a quel tutto sommato piccolo indizio che è il tradimento di una notte di Sandro, e che sa di non vivere dentro un fotoromanzo o una puntata di Amici, ma dentro una vita reale. Dove da comportamenti insensati e irresponsabili, egoistici, può nascere il male degli altri. Allora si comporta di conseguenza: si tiene la sua vita, ma cerca di rendere migliore possibile, pur nel disagio, quella delle persone cui vuole bene. Perché mi pare normale che non si smetta di voler bene a una persona anche se ci si separa, dopo anni e anni di matrimonio...
L’altra donna del romanzo è Jadore. Prendendo per buono l’adagio popolare secondo il quale ci si innamora sempre dello stesso tipo di donna, cosa ha trovato Sandro di Marisa in Jadore? No, qui ti stai addentrando in territori che prescindono dal romanzo e entrano nel sottotesto. Sottotesto che forse c’è o forse no, e che non credo sia giusto indagare.
Jadore e Joyce portano un po’ di magia nera nel romanzo: quanto ti sei divertito con l’elemento magico? Per niente. L’elemento magico mi inquieta, e allo stesso tempo è ubiquo nella vita degli africani, anche quando sono in Europa. C’è, è invadente, eppure è tabù e non se ne parla. Questo ingresso, anche violento, anche a sorpresa nel romanzo, è proprio uno squarciare il velo, un venire finalmente alla luce e mostrare tutte le conseguenze che il magico – la superstizione, la fede ossessiva – possono portare in un rapporto stretto con un africano.
In un flashback Sandro si trova coinvolto nel famoso lancio di monetine a Bettino Craxi: come mai hai voluto recuperare quell’episodio della nostra storia recente? E’ un punto di svolta della nostra storia contemporanea. Attorno a quel lancio, che simboleggia meglio di qualsiasi altro momento la caduta di Craxi, e con essa del sistema politico sin lì, Sandro e quelli come Sandro, ossia quelli del volontariato, dei centri sociali, della politica antagonista, della controcultura, avevano percepito una svolta nel Paese, verso anni dove ci si sarebbe riappropriati della propria vita, dove si sarebbe ricostruita una società pulita e nuova con l’aiuto delle sole proprie forze. Da lì sembrava cominciare tutto. E, se guardiamo a come è andata a finire, da lì, in realtà, è cominciato il Male. Le cui conseguenze, per esempio, le pagano gli immigrati alle prese con leggi inique e farraginose, tutte tese a escludere insensatamente e ad allontanare.
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