Intervista a Francesco Trasatti
L’improvvisazione come palestra di vita. E’ questo il nocciolo del workshop “Io sono – Tu sei” organizzato dalla compagnia teatrale Improvvivo negli scorsi 1, 2 e 3 maggio a Servigliano in occasione della manifestazione itinerante Paesaggi Umani su cui si è scelto di non spegnere ancora i riflettori data la qualità e quantità del materiale raccolto.
Alla fine di una lunga giornata di lavoro abbiamo intercettato il Presidente di Improvvivo Francesco Trasatti, trainer dei ragazzi di “Io sono – Tu sei”, per farci raccontare le intenzioni e gli sviluppi del workshop.
Cosa sono per te i Paesaggi Umani?
La varia umanità e quindi la bellezza. Se ti dovessi dare una definizione questo è ciò che mi viene da dire di getto: la bellezza dell’animo umano nelle sue mille sfaccettature, come un paesaggio. Quindi la capacità di poter entrare in simbiosi con differenti persone nella condivisione, nell’interscambio tra diversità. Secondo me il connubio verbale “Paesaggio Umano” è proprio indicativo di questo. E poi il paesaggio marchigiano… l’armonia delle colline, la montagna, il litorale: un connubio di colori e di forme anche diverse. E la stessa cosa è la gente quindi è bello che ci sia un lavoro specifico su questo; poi, tra l’altro, facendo improvvisazione mi ritrovo molto in questa definizione.
Durante questo workshop stai lavorando con questo gruppo di circa 15 persone su diversi giochi…
Vogliono attivare nei partecipanti delle riflessioni e dei ricettori/sensori – mi piace chiamarli così - che stimolino i partecipanti stessi a rapportarsi con il vivere comune secondo linee guida magari differenti. Per questo è molto importante il lavoro sulla fiducia, sulla condivisione, sul rispetto. Poco fa ad esempio abbiamo terminato la giornata facendo delle scene di improvvisazione ed anche in questo caso è emersa la negazione… perché è tutto frutto della paura… E’ proprio, secondo me, una metafora sociale. Il fatto che vi sia una tendenza “politica” conservatrice è dovuto alla paura di tutto. Tempo fa leggevo su internet una ricerca in cui la paura veniva individuata come terzo fattore di business mondiale dopo il petrolio e la droga. La paura diventa proprio quantificata economicamente: una popolazione impaurita si gestisce meglio…Dunque mi piace il lavoro teatrale - e soprattutto l’improvvisazione - perché lavora sullo smantellamento di questa paura e sulla capacità di mettersi in gioco tenendo comunque presenti dei valori straordinari: la condivisione, il rispetto, il lavorare in squadra, il trovare il proprio ruolo all’interno della squadra. Poi sai, per una persona che lo fa di mestiere, ciò ti mette anche in crisi: ad esempio quando si deve capire bene il proprio ruolo all’interno di spettacoli che, messi in scena con queste tecniche, sono difficoltosi ed impegnativi. Chiaramente un professionista lo vive in una maniera artistica, mentre una persona incuriosita lo può prendere per ciò che è: arricchente rispetto ad una dimensione umana, alla vita di tutti i giorni ed alla relazione con l’altro. Se capisco che magari mi devo fidare di più, che devo cercare di lottare contro paure e blocchi che mi vengono e che magari mi devo mettere in gioco anche nella vita di tutti i giorni vuol dire che ho riflettuto. E se riesci a mettere in pratica anche un millesimo degli input che vengono dati dal lavoro di improvvisazione, la missione è già stata raggiunta, per ciò che mi riguarda.
Un esempio pratico di applicazione di questi input nel sociale…
Immagino l’improvvisazione come una disciplina generale dalla quale si ramificano varie scuole di pensiero, varie compagnie e modalità. In una di queste ramificazioni c’è l’improvvisazione applicata al sociale che si dirama a sua volta in una serie di idee. C’è il “Playback Theatre” fondato nel 1975, da Jonathan Fox negli USA e portato in Italia. C’è Nadia Lotti, una psicodrammatista, che se ne occupa e lavora anche in situazioni di teatro sociale con operatori di comunità, lavori in contesti di sostegno, anche con tossicodipendenti, diversamente abili ecc.. Altra scuola interessante è il teatro dell’oppresso: impostazione dell’improvvisazione che nasce ad opera di Augusto Boal, attore/regista brasiliano che ha battezzato questa scuola perché lotta contro l’oppressione di certe sovrastrutture mentali e porta la persona a liberarsi dalle proprie oppressioni. E questo è molto applicato in contesti anche sociali e di comunità. Sono due di rilievo in Italia e secondo me due binari interessanti su cui l’improvvisazione si sta sviluppando. Tra l’altro ricordo che in Italia è in atto l’unico esperimento a livello europeo di compagnia di improvvisazione teatrale formata da persone affette da sindrome di down. Io ho visto il gruppo in azione - coordinato da Nadia Lotti – è lo trovo un esperimento molto interessante. In realtà, secondo me, tante possono essere le sfaccettature ed applicazioni dell’improvvisazione.
Noi parliamo di teatro sociale riferendoci a situazioni di disagio, di comunità, di tossicodipendenti, di disabili ecc. Però il teatro è già sociale di proprio. Ciò che stiamo facendo in questi giorni è un lavoro sul rispetto, sulla condivisione, sul divertirsi riflettendo contemporaneamente anche su alcuni fattori come il blocco, la negazione, la paura... Si tratta comunque di un teatro sociale più popolare, perché diversi sono i partecipanti. Anche se non si possono mettere a paragone le due realtà, quella dei partecipanti ad un workshop con situazioni che magari che esigono una maggiore delicatezza, la socialità del teatro resta comunque. Nel primo e nel secondo caso.