IL PERU' DI SERENA
La seconda parte del racconto del viaggio in Ecuador/30
12/7/2007 - Cuenca si rivela da subito la città ideale, piena di sorprese e di storie da raccontare. A causa della frana la nostra tabella di marcia è tutta sfalsata, l’arrivo previsto nel tardo pomeriggio si posticipa notevolmente. Non abbiamo una guida alla quale poterci affidare per la scelta dell’ostello. A mezzanotte la stazione è semideserta, per fortuna c’è una panetteria aperta, blocchiamo la fame con alcuni dolcetti tipici ed un ragazzo che lavora lì ci consiglia “el Cafecito”: “Tutti gli stranieri si fermano lì a dormire” ci rivela. Siamo troppo stanche per metterci a cercare alternative, così con un taxi arriviamo al portone dell’ostello consigliatoci.
È buio, è tardi, nessuno sembra ascoltare il campanello. All’improvviso il portone si apre e ci accoglie un posticino tutto colorato, con musica jazz di sottofondo e tanta gente, la maggior parte “mochileros” (turisti con lo zaino in spalla) come noi. Il "Cafecito" è composto da una sala-bar grande, dove tutto è studiato al dettaglio (i quadri alle pareti, il vaso di fiori che decora ogni tavolo) e trasmette la sensazione di ambiente familiare; nella parte posteriore ci sono le stanze che si affacciano su un giardino. La mattina seguente siamo pronte per esplorare la città: i ragazzi del bar ci danno alcune dritte sui posti più caratteristici da visitare e ci regalano una cartina.
A confronto con Guayaquil ed i suoi grattacieli, Cuenca sembra una miniatura in cui tutti i dettagli, le stradine, i parchi sembrano essere lì per una ragione. Per certi versi assomiglia ad una città europea: l’eredità spagnola è forte, la cattedrale e la “plaza de armas” ne sono testimoni, il paesaggio e le tradizioni andine sono ugualmente visibili, così che tutto è mescolato nelle giuste proporzioni.
Il museo del cappello ci cattura per un po’ svelandoci tutti i segreti che si nascondo nella lavorazione di questo capo di abbigliamento. La materia prima utilizzata è una pianta chiamata pianta “tottora”: sembra impossibile credere che si possa ridurre in minuscoli filamenti che poi l’uomo trasforma in “sombreri” tanto originali. Giuditta si innamora del modello Panama, a me conquistano i cappellini colorati, da spiaggia. Per un attimo ci dimentichiamo di tutto e ci improvvisiamo modelle…
Il rio Tomemamba separa la parte storica della città da quella più moderna: lo percorriamo per un po’ fino a raggiungere un sito archeologico chiamato Pumapungo. L’impatto è forte, sembra che le culture a Cuenca si siano incontrate e siano riuscite a trovare il proprio spazio lasciando la possibilità di saltare da un’epoca all’altra in modo armonico. La vera scoperta del giorno la facciamo nel pomeriggio, quando per caso, percorriamo una via alle spalle della piazza principale ed entriamo in un patio, incuriosite dal nome “Mama Kinua”. È un ristorante-caffetteria quello che ci accoglie, però non solo. La signora che si trova nella cucina, rigorosamente in abiti tipici andini (simili alle signore peruviane di Puno o a quelle boliviane di La Paz, con un cappello di paglia alto, due lunghe trecce e la gonna scampanata), ci spiega che quella attività è parte di un progetto di turismo residenziale più ampio. Ci mostra alcuni dépliants e ci parla della possibilità di visitare per un giorno una comunità del campo situata ad un’oretta dalla città.
Senza esitare prenotiamo il nostro viaggio nella comunità “Chilcatotoras”. Arriviamo prestissimo in un’abitazione fatta di argilla e paglia. Una signora ci accoglie con una ricca colazione a base di choclo (mais), formaggio e uovo e, per brindare, una tisana che si ricava da una pianta che cresce vicino alla casa. Mentre il palato riceve questi ricchi e nuovi sapori, la signora ci spiega la storia della comunità e l’origine del progetto. Ci racconta delle difficoltà economiche di molte comunità andine che non riuscivano ad andare avanti con i soli prodotti del campo di cui disponevano; del problema di salvaguardare la propria identità culturale che spesso, nell’incontro con i costumi cittadini, perdeva la sua integrità.
Quando le chiediamo come siano riusciti a far partire questa nuova idea di turismo, più rispettoso delle comunità autoctone e profondamente diverso da quello che c’è, ad esempio, nel Cusco, ci spiega che tutto nacque con l’iniziativa di un gruppo di Medici Senza Frontiere francesi. Questi hanno insegnato loro a valorizzare gli aspetti tipici della propria cultura, a raccontarsi e a raccontare la propria storia e le proprie tradizioni e a fare di tutto ciò un’attività economica con la quale le varie comunità socie possano sopravvivere. Allo stesso tempo hanno incentivato la produzione casearia, creando un'équipe in grado di produrre formaggio con tanto di mini industria. Io rimango sbalordita e penso all’intelligenza di un progetto come questo, che aiuta economicamente le comunità senza che perdano la propria essenza.
Continuiamo la visita con un signore che ci fa conoscere la fabbrica di formaggio, i campi, le piante medicinali che ancora vengono utilizzate con successo, ci mostra la casa della “curandera” (una sorta di maga che cura i mali fisici e mentali delle persone). Al ritorno ci aspetta una sorpresa: la “pampamesa”. Hanno posto una stuoia di paglia al suolo, coperta da un tessuto di cotone bianco e, sopra, il pranzo: pollo, verdure, riso, patate e mais. Tutti seduti per terra iniziamo: per un attimo, mi sento in un’altra epoca.
L’aspetto che più mi colpisce è che qui la gente sembra più orgogliosa delle proprie origini e della cultura che rappresenta; in Perù, nelle città che ho visitato ho percepito sempre un senso di disagio misto a vergogna tra la popolazione andina. Soprattutto a Lima, in cui tutti cercano di spogliarsi dei propri tratti caratteristici per improvvisarsi “cittadini”. Probabilmente è un prodotto del ventennio di violenza politica, durante il quale essere del campo (quindi indossare vestiti tipici) e parlare “quechua” erano visti come segni di appartenenza ad un gruppo terroristico, così che la gente ha ritenuto opportuno prendere le distanze da quel tipo di identità culturale. Serena D'Angelo
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