di Urso Alex
Ed il tutto si è risolto nella maniera più prevedibile, nel modo in cui tutti pensavamo finisse e proprio perché finale scontato in fondo pensavamo poco probabile. Invece, nessun colpo di scena. Processo rapido, l’efficacia di una sentenza, i muscoli di una decisione convinta e determinata, per il trionfo di una sacrosanta giustizia. Forse.
Dopo un anno di processo, Saddam Hussein è stato pochi giorni fa condannato definitivamente dal tribunale penale iracheno. Le accuse sono indubbiamente gravi ed incontrastabili, provate e dirette verso una sola direzione: la pena capitale. I circa 500 capi di imputazione che gli erano stati notificati sono stati archiviati tutti ad eccezione di 14, quelli più gravi e sufficienti, secondo la corte, alla giustificazione della sentenza ultima: esecuzioni, deportazioni, uso d’armi chimiche, repressioni ai fini di un regime criminale quanto mai efficace e sanguinario.
Il verdetto è certamente il più spietato, forse il meno giusto. Ed il mondo si divide. Punire il crimine con un altro crimine. Le mani dei boia non si fermano, anche se il buonismo di alcuni è un pò meno buono, oggi. Provare pena, affermare una qualche contrarietà, o lasciarsi spietati, una volta tanto. Che il tempo provveda: 30 giorni al massimo, e probabilmente ancora una volta il rispetto dei diritti verrà privato, ancora.
Questa la parola di Amnesty: “la sentenza è vergognosa. Invece di essere un aiuto al ripristino della giustizia e del rispetto del diritto in Iraq, non è altro che la continuazione di un sistema tanto criticato e combattuto”. C’è che non siamo solo di fronte alla privazione della vita, all’ingiustizia di una scelta compiuta da un gruppo ristretto di persone, designate a togliere la libertà di un diritto universale. Siamo di fronte all’affermazione del male, dell’odio, ancora una volta davanti alla sua vittoria. Le ritorsioni saranno probabilmente inevitabili, e già annunciate dal vecchio partito del leader pronto a rappresaglie nel caso in cui la sentenza verrà portata a compimento. Non è difficile crederlo: l’esecuzione, in un contesto ancora tanto violento, sarà assimilata da molti ad una vendetta.
«Qui io offro la mia anima a Dio, sacrifico me stesso» dice l’ex dittatore in una lettera, sconfitto e pronto a trasformare in una vittoria la definitiva caduta.
E tutti lo sanno che si continuerà. «Morirò come un martire». Significa tanto, certo.
E se l’affermazione dei diritti umani rappresenta il contenuto essenziale per una democrazia, ancora una volta siamo di fronte all’ennesima conferma degli sbagli in quella campagna strana ed oscura che è l’Iraq oggi. Nel frattempo l’America si mostra capace, in cerca di uno spiraglio che mostri l’utilità in quel Risiko di conquiste e false dichiarazioni. L’uccisione di Saddam (che quasi in questa guerra diviene, adesso, una delle tante vittime, più che un despota deposto e giudicato da un nuovo e legittimo potere) come un brandello di soddisfazione al quale aggrapparsi (non c’è da meravigliarsi se Washington abbia destinato al processo 75 milioni di dollari, fornendo al nuovo governo l’assistenza del fior fiore dei giuristi americani esperti di tribunali internazionali).
Seppur l’impegno a spronare ad un cambio di rotta sperato ma improbabile ci sia, soprattutto da parte dell’Europa con l’Italia in linea avanzata, secondo le regole del tribunale la decisione sarà difficilmente commutata in un ergastolo (come se la privazione della libertà per tutta la vita non fosse poi una punizione peggiore della morte stessa).
Intanto l’uomo, in attesa del giorno, firma testamenti e dichiarazioni: «Non odiate i popoli dei Paesi che ci attaccano» dice ai suoi seguaci «sappiate distinguere tra le persone e i loro governanti».
«Dio è grande, Dio è grande» scrive Saddam alla fine della sua lettera, lui, che anche oggi si firma «Presidente e Comandante in capo delle Forze Armate Irachene di resistenza».