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Elliott Murphy

L’anima dell’espatriato: intervista a Elliott Murphy

di Pierluigi Lucadei

Va detto chiaramente: nonostante non abbia mai raggiunto il successo di un Tom Petty o di un John Mellencamp, per non parlare del suo amico fraterno Bruce Springsteen, col quale ha collaborato e condiviso il palco più volte, Elliott Murphy è uno dei più grandi cantautori rock americani di sempre. L’ultimo album, “Coming Home Again”, sta lì a dimostrarlo, pieno com’è di stupende canzoni in cui il rock’n’roll si pacifica con gli anni che passano, con le persone che se ne vanno, con i sogni infranti e con quelli che si ostinano a restare in piedi.
Elliott vive a Parigi da anni ed ormai ha maggior seguito nel Vecchio Continente che in America. Lo abbiamo raggiunto via web per una chiacchierata.

Dove ti trovi in questo momento? Vivi ancora a Parigi?
In questo preciso momento sono seduto nel mio ufficio di Parigi e sto guardando la mappa dell’Europa che è sempre sulla parete di fronte a me, così posso vedere dove andrò. Si potrebbe dire che è il mio quadro preferito! Vivo ancora a Parigi, nonostante New York sia sempre nella mia mente.

E’ vero che ormai hai vissuto più a lungo a Parigi che a New York?
Sì, è vero. Proprio quest’anno il tempo che i miei piedi hanno trascorso camminando per Parigi ha superato il tempo passato a camminare per Broadway o per il Greenwich Village. E’ una sensazione strana, ma è come se avessi un’anima da espatriato: mi sento di più a casa quando sono lontano da casa.

Non ti mancano gli Stati Uniti?
Mi mancano la cultura e il modo di fare le cose con calma e tranquillità che c’è in America. Ma non riesco a pensare un posto degli Stati Uniti in cui vorrei vivere. Be’, forse la California, perché sono un surfista e mi piace il clima caldo e i tramonti sull’Oceano Pacifico.
 
La tua musica continua comunque ad essere molto americana.
Sì, le mie radici musicali sono nella musica che ascoltavo da ragazzo, negli anni Cinquanta e Sessanta. Dal blues e Elvis Presley alla musica folk e surf, porto tutto nelle mie vene. Forse ho aggiunto un po’ di Django Reinhardt da quando sono in Europa.

Con quale stato d’animo hai lavorato a “Coming Home Again”?
Molto rilassato, perché non pensavo affatto di registrare un album. Stavo solo registrando delle canzoni subito dopo averle scritte. Le registrazioni per “Coming Home Again” sono continuate per due anni e alla fine abbiamo realizzato che avevamo qualcosa che suonava come un album.
E’ stato molto eccitante. Olivier Durand mi ha fatto tornare indietro sui miei passi e ri-registrare alcune canzoni con la nuova band e sono veramente contento che abbia insistito.

Puoi descrivere il tuo processo di scrittura?
Costante e casuale. Scrivo in qualsiasi momento e dappertutto, camminando per strada, nel taxi, nei soundcheck, nelle stanze d’hotel. Una cosa che ho imparato è che quando l’ispirazione bussa devi rispondere perché non sai mai quando si ripresenterà di nuovo. Sfortunatamente molte delle mie migliori idee mi vengono mentre dormo.

Alcuni versi dell’ultimo album (“two junkies in the corner/they must have been beautiful once/I watch them share a cup of coffee/as I order my lunch/every meal is a banquet every day’s a holiday/we don’t know it but we got it made”) mi hanno fatto tornare in mente il tuo libro di racconti (“Café Notes”). Che relazione intercorre tra i testi delle canzoni e i racconti?
Be’, entrambi vengono fuori dagli stessi pensieri e dalle stesse esperienze, tuttavia il processo di scrittura di canzoni è molto differente da quello di scrittura di racconti. Le canzoni sono momenti di breve magia, i racconti sono come dei rami all’interno dell’enorme mitologia dell’uomo. Credo che tutti i libri siano collegati tra loro in qualche modo, ma non tutte le canzoni.

Are you my friend or my mirror/if you’re my friend come nearer make it clearer”: sono dei bellissimi versi tratti da “Making Friends With The Dead”. Cosa puoi dire di questa ballata?
Guarda, come ha detto una volta Bruce Springsteen, le canzoni sanno più cose su di noi di quante noi ne sappiamo su di esse. Comunque credo che “Making Friends With The Dead” parli di una relazione e di come bisogna tentare di mantenerla in vita anche quando sembra finita, morta. E suppongo parli anche di come pacificarsi con la propria mortalità.

“The Prince Of Chaos” è forse la canzone più grandiosa e complessa dell’album. Di cosa parla?
Di George Bush, Johnny Ramone, Johnny B Good, di me stesso, dell’America, degli Anni Sessanta e della torta di mele di mia madre. Credo che parli della mia generazione soprattutto. Eravamo completamenti presi dalla politica e dal pacifismo sin dall’adolescenza e qualche volta, a ripensarci, mi sembra di essere stato dalla parte dei perdenti nelle guerre culturali degli Anni Sessanta. Ma, come si dice, non è finita finché non è finita!

Quanto è importante la chitarra di Olivier Durand nelle tue canzoni?
Oliver è molto, molto importante. E’ il mio soul brother e il mio partner musicale prediletto. E’ la mia memoria e la mia coscienza e se questi ultimi dieci anni sono stati così produttivi è merito del suo straordinario talento. Quando scrivo una canzone, lui arriva sempre con una grande parte di chitarra e, dal vivo, non esiste per le mie tasche un chitarrista migliore di lui da nessuna parte.

Che rapporto hai con i tuoi fan?
Eccellente! Esclusa la mia famiglia, considero i miei fan il mio più grande tesoro. Mi mostrano la via da seguire e mi tengono motivato. Alcuni di loro vengono a vedere cinquanta concerti all’anno e quando li vedo tra il pubblico cerco sempre di fare del mio meglio e di dar loro qualcosa di diverso ogni sera. Sono davvero riconoscente di avere delle persone così meravigliose che sono là fuori ad incitarmi. Per esempio gli Spirit of Beauregard in Francia e i Rainy Season Fans in Spagna. Sono come una benedizione!
 
Hai mai trovato delle differenze tra i fan americani e quelli europei?
Non ho molte possibilità di incontrare i miei fan americani, così è un po’ complicato rispondere. I fan europei tendono ad avere un approccio più vasto alla cultura, d’altra parte gli americani ne sanno una cifra in fatto di rock’n’roll. Ma i miei fan sono una grande famiglia, la Night Lights Family (come si chiama il loro gruppo di chat), indipendentemente da dove provengono.

Stai ascoltando qualcosa di buono in questo periodo?
Il nuovo album di Ricky Lee Jones.

Cosa vorresti nel palco ideale su cui suonare la tua musica?
Vorrei un palco con un bellissimo tappeto persiano, un bel monitor parlante che mi suggerisca le parole, così da avere i testi delle centinaia di canzoni che ho scritto proprio di fronte a me. E poi vorrei avere alcune belle donne in prima fila, credo siano sempre utili per far fluire l’ispirazione.

 Pierluigi Lucadei

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 Articolo letto 5036 volte. il 01 Apr 2007 alle 12:11
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