di Urso Alex
Esistono da 12 anni ma gli tocca passare ancora per "emergenti". Gli Arsenico si sono ritagliati il loro posto di diritto nell'hardcore torinese, ora cercano di andare oltre pubblicando il primo album distribuito in tutta Italia. Si parla del loro passato, di gavetta, di Torino che marchia a fuoco i suoi musicisti e li rende unici, di futuro. L’intervista di Alex Urso.
Chi sono gli Arsenico. Quando nascono. Perchè nascono.
Gli Arsenico sono una band ma soprattutto un gruppo di amici cresciuti sui banchi di scuola. Nascono nel ’96, un po’ per uscire dalla noia della periferia torinese in cui vivevamo, ma soprattutto perché a quindici anni era l’unico modo che sentivamo nostro per esprimerci. Così, seguendo anche quelle che erano state le esperienze di fratelli maggiori e persone poco più grandi di noi, ci siamo avvicinati a situazioni musicali ed ambienti nuovi, centri occupati, stringendo amicizie con gruppi come Bellicosi e COV che erano della nostra stessa zona. Era un mondo attivo, che ci affascinava, e in cui siamo iniziati di crescere anche noi.
Andiamo subito al nuovo disco, “Esistono Distanze”. Perchè avete aspettato così tanto per esordire con una produzione importante?
Semplicemente perché prima non ce n’era il bisogno. Quando abbiamo iniziato gli Arsenico erano un gioco che ci piaceva tantissimo, e questo ci bastava; probabilmente neanche noi immaginavamo sarebbe potuta diventare una cosa così fondamentale nella nostra vita. Così ci siamo fatti le nostre esperienze in assoluta autonomia, senza pressioni, suonando in giro, migliorando tantissimo. Crediamo ancora che un musicista debba meritare il fatto di esserlo, e questo non lo ottieni semplicemente con un contratto. Voglio dire, non è questa la prima cosa.
Quindi con gli anni siamo cresciuti artisticamente, fino ad arrivare ad oggi, al punto di non essere più contenti di registrare semplicemente, ma avere la voglia di una vera e propria produzione che potesse raccogliere tutto quello che di buono avevamo acquisito con gli anni. Direi che l’uscita del disco con un’etichetta ed una produzione di un certo tipo è arrivata maturamente, dopo una crescita fatta in dodici anni.
Nonostante le autoproduzione precedenti, è giusto considerarlo una sorta di disco d’esordio?
A noi piace fare esperienze sempre nuove, e trovarci sempre nella situazione di doverci mettere alla prova. Da questo punto di vista quindi è giusto, nel senso che comunque ci stiamo confrontando con un mondo di persone e di artisti nuovo. In questo se vogliamo è un esordio.
Certo in dodici anni abbiamo fatto concerti, dischi, collaborazioni che non sono da poco, ma sono comunque secondo me quello che un gruppo deve fare per esistere. Direi che dodici anni sono una giusta età se vogliamo, per poi andare ad affrontare delle esperienze più grandi, andare a mettersi in gioco in un determinato modo. Non so se chiamarla gavetta, ma certo è un preannunciarsi a qualcosa di più grande, una tappa preparatoria a situazioni ben più importanti che prima non avremmo potuto affrontare perché non avremmo avuto la maturità per farlo.
Quindi va bene, chiamarlo esordio va bene, purché però non si cancelli tutto quello che c’è stato prima. Il disco non dimentica quello che c’è stato prima, ma è semplicemente il rendersi conto di quello che abbiamo fatto negli anni, il prendere coscienza che in quel lavoro ci sono dodici anni di passione e progetti.
Due cover in un disco: Truzzi Brothers (“Ti ho visto in piazza”), vecchie guardie dell’hc torinese, e Vasco Rossi (“Fegato spappolato”). Come mai queste scelte?
Intanto sono due canzoni che ci piacciono tantissimo. Nel caso dei Truzzi Brothers poi la cosa è doppia, nel senso che sono un pezzo di storia dell’hc torinese che abbiamo voluto omaggiare, cercando di portarci dietro qualcosa di più vecchio di noi. Poi “Ti ho visto in piazza” la trovo una canzone ancora assolutamente contemporanea nonostante sia stata scritta nell’89. Parla di Torino, dei ragazzi di Torino, di situazioni in cui nonostante i vent’anni di distanza ancora ci ritroviamo.
E Vasco perché Vasco ci piace tanto, o per lo meno ci piaceva tanto. Adesso purtroppo ha preso delle direzioni un pochettino troppo semplici da un certo punto di vista, ma è giusto ricordare che una volta Vasco sapeva fare il punk, sapeva essere pungente e dire cose che erano scomode. Quindi per questo va assolutamente apprezzato. Per di più il pezzo sull’hardcore rende tantissimo.
La distanza sembra il filo conduttore di tutto l’album.
Quello che vorremmo dire in questo disco è la sensazione di allontanamento che certe occasioni della vita ti portano a fare. Allontanamento da tutto. Nello specifico potremmo parlare del nostro allontanamento dalle esperienze musicali passate, della maturazione, del fatto che possiamo oggi vedere da lontano la nostra crescita artistica. E se vogliamo anche questo è un allontanamento, perchè comunque ci troviamo in un’altra dimensione, che ci permette di analizzare dall’alto il nostro percorso di crescita. È un allontanamento psicologico ma anche materiale. Suonare lontano, trovarsi in un’altra città che non avevi mai visto prima, accorgersi di esserti veramente allontanato da qualcosa che credevi solido e tuo.
E ovviamente è un discorso che vale per ogni tipo di esperienza di vita. Credo che in ogni situazione, a volte, si debba trovare il modo di allontanarsi, di distaccarsi cercando un punto di vista esterno a te, che ti permetta di guardarti anche dal di fuori.
La vostra musica ha inflessioni continue, dal punk al pop al rock. Forse l’aspetto più cantautorale in questo lavoro esce dal pezzo di chiusura “Sudore brilla”. Quanto pensi che i giovani nella musica oggi diano importanza all’aspetto cantautorale, e quanto siano riusciti a metabolizzare l’eredità italiana?
Mah, io spero che i ragazzi di oggi tengano conto di questo aspetto. Più che altro la cosa importante che sostengo è il fatto che se un musicista ha la possibilità di scrivere dei pezzi e farli arrivare a tante persone, i testi devono parlare di cose, oltre ad avere necessariamente uno stile e ad essere il più possibile belli. Non dico che la musica debba fare poesia, ma sicuramente deve cercare di essere immaginaria e creare passione nelle persone che ascoltano. Deve parlare, e sarebbe meglio se parlasse anche degli aspetti più seri della vita. Fare musica, scrivere qualcosa che viene ascoltata da altre persone è un’occasione di comunicazione unica, che non và sprecata; appropriarsi di questa possibilità per cantare di nulla non è giusto.
Ovviamente ci sono gruppi che lo sanno, e tengono molto al rispetto di questo principio. Ma è anche vero che gran parte della musica giovanile che sta uscendo a gran voce adesso parla molto di nulla. Senza fare esempi particolari, però è chiaro a tutti: oggi escono dei gruppi che secondo me non hanno uno spessore a livello di testi, e la cosa mi inquieta ancora di più perché forse non sono neanche convinti di questo, nel senso che sembra non abbiano nemmeno la consapevolezza di cosa stanno dicendo.
“Dio fatto uomo” è uno dei vecchi pezzi ripresi e rivisitati per quest’album. Il tema che affronta è quello della religione?
Non propriamente. “Dio fatto uomo” parla dei soprusi in generale, delle violazioni che ci sono in certe situazioni. Parla del fatto che ci siano delle persone che si permettono di decidere sugli altri, di sopprimere delle idee, dei movimenti e via dicendo. Parla delle dittature ad esempio, ma in generale di tutte quelle circostanze che oggi ci proibiscono di essere pienamente liberi.
L’espressione “Dio fatto uomo” viene fuori proprio dal fatto che appunto queste persone sono come Dio in terra, e pretendono di decidere vita morte e pensiero della gente. Dunque la religione interviene in questo discorso solo nel momento in cui diventa integralismo, violazione di libertà, qualcosa che in molti casi la avvicina al comportamento di qualsiasi altra dittatura dichiarata.
Andiamo a voi. Fate musica dal ‘96. Dodici anni di gavetta sono tanti, almeno per i tempi musicali di oggi, e per la difficoltà in generale a sostenere progetti a lunga scadenza. Direi che almeno in questo siete un caso particolare in Italia.
Non siamo un caso particolare. Una volta esistevano queste cose. E tutt’ora alcuni gruppi lo fanno. Una volta non esisteva che un gruppo uscisse senza avere prima l’esperienza di dischi o anni di concerti alle spalle. La gavetta, se vogliamo chiamarla così, era semplicemente un percorso spontaneo, fatto perché il gruppo all’inizio voleva solo divertirsi e dire delle cose. Non c’era l’ossessione come oggi di trovare l’etichetta, di uscire, di diventare divi strafighi già dopo sei mesi.
Adesso non so. Qualche gruppo ancora lo fa. Qualcuno che si sbatte e si organizza concerti in giro per l’Italia da solo, cercando di farsi notare piano piano c‘è.
Ma se una volta era difficile trovare il gruppo che già al primo demo si proponeva all’etichetta, oggi mi dispiace vedere che sempre più gruppi fanno un pezzo e lo spediscono alla casa discografica, fanno un demo e cercano subito di farlo uscire in modo grosso. Non mi piace l’idea che un gruppo nasca ed il giorno dopo già cerchi di trovare una produzione. Prima devi fare un bel po’ di strada, costruirti una buona base e poi semmai cercare qualcosa.
Probabilmente questa fretta di arrivare è cresciuta col Do It Yourself. Credo che questo abbia dato grande motivazione ai giovani che hanno voglia di dire e fare, ma dall’altra parte sta facendo credere, perché forse è vero, che in fondo a fare musica ormai non ci voglia poi così tanto. Che ne pensi?
Il DIY è un’opportunità. Lo è stata per noi ed è tutt’ora una cosa che continuiamo ad avere dentro. Come tutte le opportunità poi sarebbe bello se venisse usata in un certo modo. Sicuramente non è colpa del DIY se molti musicisti hanno fretta.
La vostra città. Torino ha sempre instaurato un rapporto morboso con i suoi musicisti, e nella maggior parte dei casi ogni suo figlio ha sentito la necessità di omaggiarla o denunciarla in qualche modo. Perché questo attaccamento verso questa città?
Ma perchè in qualche modo ci ha dato un marchio, uno stampo a tutti quanti, indipendentemente dal genere. Non so come dire, ma un musicista quando arriva da Torino si sente. Nel senso che la sua musica non è uguale rispetto a quella di qualsiasi altro musicista di qualsiasi altra città italiana.
È ovvio che ogni città poi ha delle sue caratteristiche particolari, ma Torino si è sempre contraddistinta con delle sfumature troppo personali per essere comuni ad altri centri.
Per quanto riguarda l’hardcore ad esempio, fino a qualche anno fa i gruppi milanesi in generale erano molto più californiani, mentre i gruppi di Torino non facevano in realtà neanche appello ad esperienze che non gli appartenevano, non si attaccavano a nulla immediatamente. Non è difficile infatti vedere che nei gruppi di Torino trovi continuamente dei riferimenti ad altri gruppi di Torino, precedenti o contemporanei. È una specie di famiglia, e in questo è molto diversa da molte altre realtà italiane.
E la “Torino hardcore” è solo un pezzo di storia?
La “Torino hardcore” credo che sia una cosa che abita dentro le persone. Non è una scena. Non mi è mai piaciuto considerarla una scena. Se la si chiama scena, e molti l’hanno fatto, si sbaglia. Nel momento in cui l’hanno chiamata scena l’hanno uccisa, o comunque l’hanno pugnalata molto profondamente.
Quando la scena esiste, le persone che ci sono all’interno non hanno neanche motivo di doversi identificare con un nome o un’etichetta. Direi che la “Torino hardcore” è stata ed è tutt’ora un aiuto, una collaborazione tra gruppi che si supportano l’un l’altro. Loro sono la scena. Ché poi molti si arrogano il diritto di farne parte senza sapere in realtà cosa voglia dire farne parte.
Che importanza hanno avuto centri come El Paso nel supportarla in questo?
El Paso è stato il punto di riferimento per l’hardcore a Torino. Adesso ce ne sono anche altri perché la situazione si è un po’ aperta, ma all’inizio è stato proprio il tempio sacro dell’hc. Dall’87, anno in cui il centro è stato occupato, El Paso ha dato sempre attenzione a quei gruppi che negli anni ‘80 non avevano neanche un posto per fare un concerto. Tutti volevano passare da El Paso e tanti ci sono riusciti; noi abbiamo avuto la fortuna di suonarci ancora in un momento florido di idee e di gruppi, dove giravano continuamente cose nuove. Da ambienti come El Paso abbiamo imparato molto, ma sicuramente la musica in generale guadagna molto da questi centri, perché comunque supportano suoni di nicchia che altrimenti non avrebbero spazi.
Ma Torino è davvero ancora oggi uno dei fulcri della musica underground in Italia?
Se Torino riesce un attimo a guardarsi senza pensare al passato o al suo possibile futuro, se si guarda al presente, può esserlo. Se cerca di vivere nell’oggi, con tutto quello che comporta prendere coscienza di questo, riesce ad essere un polo importante e riesce a tirare fuori delle cose interessanti. Se si pensa ancora di essere negli anni ’80 non si va da nessuna parte.