L'Etiopia di Francesca
Come ha vissuto una straniera il Timkat, il battesimo di Gesù, importante celebrazione della religione ortodossa
24/1/2008 - Non si può vivere in Etiopia e non parlare di religione, che di solito significa ortodossia, ma a Moyale anche islam. La religione è qui un facile argomento di conversazione, di cui si parla molto volentieri. Non è insolito che dopo un po’ che si chiacchiera con una persona, anche se conosciuta da poco tempo, questa chieda all’interlocutore, specie se straniero come la sottoscritta, se crede in Dio e a quale religione appartenga. A volte ho la sensazione che la prima domanda sia piuttosto retorica, perché qui è ovvio credere. Quando dico loro di essere cattolica, gli ortodossi mi fanno sentire a casa perché rispondono che le differenze tra le due religioni sono davvero minime.
Essere italiani può significare già di per sé molte cose da un punto di vista etnico-nazionale e religioso, mentre essere etiope può non bastare e per avere altre informazioni occorre risalire all’area geografica, al gruppo etnico, alla religione, ecc.
Qualche giorno fa ho partecipato a un’importante celebrazione della religione ortodossa: il Timkat, cioè il battesimo di Gesù. La sera precedente una mia amica e un mio collega mi avevano chiesto se desideravo andare con loro: avevo in programma di trascorrere un pomeriggio di studio della lingua amarica ma la curiosità ha preso il sopravvento: non potevo perdermi un evento che avrebbe mobilitato quasi mezza Moyale. La richiesta dell’ora per la partenza ha creato un po’ di disorientamento: per noi l’imprevisto è qualcosa di raro e spesso governabile, qui invece è una variabile sempre presente che rende difficile anche pianificare.
In attesa che mi venissero a prendere per il Timkat, ho pranzato in un ristorante musulmano con un collega. Qui a Moyale esistono due tipi di ristoranti, uno per gli ortodossi e uno per i musulmani: la differenza è che ciascuno rispetta i propri precetti religiosi per l’uccisione dell’animale e la lavorazione della carne. Insomma: mentre il mio stomaco digeriva carne musulmana, io andavo in processione con gli ortodossi. Ma qui mi perdonano comportamenti o riflessioni non appropriati perché, come a volte mi dicono, “tanto sei ferenji”. In effetti, la condizione di “ferenji” porta con sé precise aspettative, piacevoli e no meno: oggi ad esempio mi hanno fatto notare che i “ferenji” non salutano. Ho spiegato che abbiamo un modo diverso di salutare e riteniamo sufficiente stringere la mano invece che baciare ripetutamente la guancia dell’altro. “Ma se ci troviamo in un Paese nuovo – ho aggiunto - siamo in grado di adattarci, magari ci serve un po’ di tempo…”.
La celebrazione del Timkat è durata due giorni e sia la processione sia la successiva preghiera sono state molto festose, allegre e piene di gioia. C’erano diversi gruppi e ognuno cantava nella sua lingua, ballava nel suo stile e indossava i propri abiti. Non c’erano solo gli abitanti di Moyale, ma anche i Konso, un gruppo proveniente da ovest, usualmente impiegato nei lavori di fatica grazie alle sue doti di resistenza fisica, e i commercianti keniani che durante il weekend preferiscono stare nella parte etiope di Moyale dove ci sono localini, ristoranti e piacevoli alberghi (Moyale Kenya non offre questi servizi , lì però l’elettricità e la connessione a internet funzionano 24 ore su 24). Anch’io partecipavo battendo le mani a ritmo e cercando di capire le parole dei canti. Ma restavo al centro dell’attenzione: nonostante indossassi la sciarpa per il rito ortodosso prestatami dalla mia amica che mi copriva la testa, tra canti e suoni risuonava la parola “ferenji!”. Colpa forse della macchina fotografica che, in certe occasioni, costituisce il segno distintivo del “ferenji” e quindi va usata con un po’ di consapevolezza… Francesca Bernabini
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