L’illusione di una mafia sconfitta
Pensate per un attimo a quanti libri su Bernardo Provenzano sono stati scritti nell’ultimo anno, quanti speciali televisivi sono stati registrati dopo la cattura del boss di “cosa nostra”, latitante da più di quarant’anni. Tanti, forse troppi, se è vero che spesso quantità e qualità non vanno a braccetto. Da quel 11 aprile 2006 sappiamo molto del vecchio Padrino corleonese, dalle condizioni igieniche della latitanza ai suoi gusti alimentari, dal carattere di quel vecchietto operato alla prostata al presunto codice di cui sarebbe artefice. Tanto folklore, appunto. Restano taciuti i due aspetti più importanti connaturati alla mafia siciliana: la provenienza dei flussi di denaro illecito (il così detto tesoro di “cosa nostra”, si parla di miliardi di euro) e la rete dei rapporti economici e politici che permette la sopravvivenza di questa potentissima organizzazione criminale. Il libro “I complici” di Abbate e Gomez (edito da Fazi 2007, € 15) cerca di fare luce sul secondo aspetto, elencando nomi e cognomi, a tutti i livelli sociali e istituzionali, che costituiscono quella ragnatela fitta di interessi che logora lo Stato dall’interno e che rappresenta la causa prima di una guerra contro la mafia che sembra infinita. Per capire cosa vuol dire mafia legata al mondo degli affari è sufficiente un esempio riguardo al sistema sanitario regionale, che in Sicilia è il più grande business grazie al meccanismo delle cliniche private convenzionate (a riguardo si consiglia il documentario “La mafia è bianca” di Bianchi e Nerazzini – BURsenzafiltro 2005, € 19,50). Un ciclo di terapia antitumorale in una clinica privata convenzionata, sotto la gestione di un prestanome di Provenzano costava 136.000 euro; dopo l’arresto del mafioso e il commissariamento della clinica, la stessa terapia veniva a costare 9.900 euro: i numeri parlano da sé. Ma la mafia che non spara fa affari in tutti i settori, dagli appalti in edilizia e trasporti alla gestione degli alberghi (come dimostra la recente operazione addirittura in provincia di Brescia) e del pizzo (pagato a Palermo dall’80% dei commercianti). Non è una questione di semplice infiltrazione nei gangli del potere, il che presupporrebbe un corpo fondamentalmente sano; si tratta di rompere il solido anello fra economia, consenso e politica che si autoalimenta nella società siciliana (e non solo), contagiando la politica a destra e a sinistra e sedimentando attraverso i decenni. La politica deve alzare il livello di vigilanza al proprio interno, deve impedire anche solo l’esistenza di comportamenti morbidi o poco trasparenti nei confronti di ogni tipo di connivenza, deve prevenire con un sistema di tutela politica e morale ciò che potrebbe nascondere dei reati, e quindi anticipare l’azione della magistratura. Di seguito il potere giudiziario dovrebbe disporre dei migliori strumenti legislativi per rendere la lotta alla mafia realmente efficace, proprio a partire dall’utilizzo dei collaboratori di giustizia, la cui gestione è stata riformata negativamente e in modo bipartisan negli anni ’90. Da sempre la società civile manifesta il proprio sdegno verso questa vera e propria piaga sociale che soffoca tutto il nostro Paese; restiamo in attesa, consapevoli ma non rassegnati, di un segnale forte da parte di questa classe politica.
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