La Palestina di Enrico / 11
Viaggio al nord della Cisgiordania/2
La seconda tappa del nostro viaggio è Tulkarm, nel nord ovest vicino alla Linea Verde, il confine armistiziale dello stato d’Israele dopo la guerra del 1948-49 con i paesi arabi limitrofi. La città, insieme al campo profughi adiacente, conta circa 60.000 abitanti.
Di Tulkarm vi racconto due cose.
1. Nel campo profughi visitiamo la famiglia di Anas. Una famiglia come tante altre, con la sua storia di violenza da raccontare. Storia ordinaria di un ragazzo cresciuto in un campo profughi, senza spazio e senza orizzonte, il futuro rubato da un’occupazione che non avrà mai fine. Unica illusione, condivisa di generazione in generazione, è il ritorno nel villaggio dal quale suo nonno fu espulso dalle milizie israeliane nel 1948. Appesa alla parete è esposta la grossa chiave di ferro, consumata e arrugginita dal tempo come le loro speranze. La chiave della vecchia casa, probabilmente rasa al suolo o occupata da una famiglia d’immigrati israeliani.
Anas ha tredici anni, e una gamba sola. L’altra se l’è portata via una mina abbandonata dall’esercito israeliano nella pineta che qualche anno prima, durante la Seconda Intifada, fungeva da base militare. In quella pineta, Anas giocava a calcio con i compagni. La palla rotola via, dietro una pianta. Lui corre a recuperarla, e il suo piedino sfortunato fa esplodere la mina. Penso che quella mina sia stata fabbricata in Italia. La famiglia di Anas è povera e non può permettersi una protesi e cure mediche adeguate. L’Autorità palestinese del posto ha promesso aiuto. Fiato sprecato: Anas andrà a ingrossare la lunga lista dei dimenticati dal mondo.
2. La fabbrica israeliana Geshouri produce fertilizzanti, pesticidi e altre sostanze chimiche. Fino al 1987 era localizzata in Israele. Poi, in seguito agli effetti dannosi sulla comunità locale, la gente dell’area limitrofa ha chiesto che fosse dislocata altrove. La fabbrica è stata così spostata aldilà del Muro, nei sobborghi di Tulkarm, Territori palestinesi occupati. La maggior parte dell’anno il vento soffia verso la città palestinese, e gli abitanti circostanti respirano le polveri e le sostanze tossiche emanate dalla fabbrica. I rari giorni in cui la direzione del vento cambia soffiando verso Israele, la fabbrica viene bloccata finché il vento non cambia di nuovo. Le case che si trovano nelle immediate vicinanze sono state abbandonate, i campi e le falde acquifere inquinati, cosicché la zona intorno è ormai desolata. Non appena sono sorti i problemi di respirazione, d’infezioni agli occhi, di cancro e altre malattie, le persone che potevano permetterselo se ne sono andate. Ora la strada che costeggia la fabbrica è chiamata “via della morte”.
In quell’inferno ci lavorano soprattutto palestinesi. La Geshouri è solo una delle fabbriche inquinanti collocate nei Territori palestinesi. Si prendono due piccioni con una fava: non si contaminano le terre e le risorse israeliane e si sfrutta la manodopera palestinese. “Questa è l’atrocità dell’occupazione”, ci dice Bilal, che vive con la sua famiglia a qualche decina di metri dalla fabbrica, “a malapena riusciamo a respirare”.
Nessuno parlerà di questi crimini, nessuno pagherà. Continuerà il silenzio complice della comunità internazionale. Poi un giorno gli Indifferenti si troveranno le mani insanguinate, ma sarà tardi, sia per le scuse di rito sia per la vergogna. “E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime” (A. Gramsci).
Enrico Bartolomei
Nelle foto: le immagini della fabbrica omicida e dei cartelli dei checkpoint e delle insegne di delimitazione dei ghetti palestinesi dalle aree controllate interamente dall'esercito e dai coloni israeliani
Pubblicato il 16/4/2009 alle ore 12:02
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