Il nuovo disco dei Pearl Jam, tra ironia ed avocado
Il nuovo album dei Pearl Jam si intitola semplicemente con il loro nome ma, vista la curiosa copertina, è già stato ribattezzato “Avocado Album”. Si tratta dell’ottavo lavoro del gruppo e segna il ritorno ad un rock ruvido e viscerale, con un obiettivo taciuto ma evidente dalla prima all’ultima traccia: dimenticare i deludenti Binaural e Riot Act. I Pearl Jam ci hanno abituato ormai da tempo a non aspettarci più da loro i riff assassini, quelli di Alive e Dissident, ma ora ci sorprendono con un assalto di schitarrate selvagge alla Vitalogy, l’album più affine quanto a sonorità al nuovo “Avocado”.
L’apertura spetta alla splendida Life Wasted, parente diretta di quella Last Exit che apriva Vitalogy, anche se la claustrofobia che caratterizzava quel disco e quel pezzo in particolare lascia il posto ora ad un grido vitale, al quale non è estranea una sottile venatura d’ironia. La risata di Vedder a metà canzone è il simbolo di qualcosa di nuovo, messa lì dopo un paio di domande con cui i Pearl Jam prendono in giro prima di tutto se stessi («il buio arriva in onde, dimmi, perché invitarlo a restare? … perché lasciare che la canzone triste suoni?»). Forse per questo a Vedder scappa da ridere: qualche anno fa negli Stati Uniti c’erano degli studi atti a dimostrare come l’ascolto della musica dei Pearl Jam producesse nell’ascoltatore abbassamento del tono dell’umore e, alla lunga, franca depressione; ora Vedder dice di aver visto l’inferno e di non aver intenzione di commettere di nuovo gli stessi errori («l’ho affrontata… una vita devastata… non tornerò più indietro»). Non ci sono dubbi che il cantante l’abbia affrontata per davvero una vita devastata. Chi ricorda i Pearl Jam psicologicamente a pezzi della stagione 93/94 sa come abbiano ballato a lungo sull’orlo del baratro e lo stesso Vedder sa bene che al posto di Cobain avrebbe potuto finire lui. Sugli episodi si può discutere quanto si vuole, ma, anche negli anni successivi, la morte si è più volte impegnata a corteggiare i Pearl Jam – la tragedia di Roskilde, la depressione di Jack Irons, la dipendenza da alcol di Mike McCready, Eddie che rischia la vita sul surf – tanto che se oggi i Nostri appaiono una comunità più coesa e forte che mai è forse merito del loro non dover più pagare scotti al destino.
Potremmo continuare a fare parallelismi con Vitalogy, Marker In The Sand una nuova Corduroy, Gone una nuova Immortality, ma forse sarebbe un annodare ingiusto. Diverse sono le canzoni che nel canzoniere dei Pearl Jam meritano un posto tutto loro. Una è Come Back, che è fragile come una margherita e forte come un doppio whisky liscio: siamo dalle parti delle ballate epiche dello Springsteen periodo The River, con i versi struggenti di Vedder che raggiungono nel ritornello un’insperata pacificazione («ogni notte quello che aspetto/è la reale possibilità di incontrarti nei miei sogni/e a volte sei lì e parli ancora con me/arriva il mattino e potrei giurare che tu sei vicina a me/e va tutto bene»). Un’altra è una canzone da spiaggia che Eddie il surfista canta facendo ricorso ad un falsetto gracchiante come una boccata d’aria dopo una sorsata di mare: Parachutes è una ballata acustica senza tempo, chiara e solare, prima che nel finale subentri la chitarra elettrica a rendere solenne l’intimità che trapela dal testo, in cui trovano posto soprattutto smanie d’amore, ma anche riflessioni sulla vita e sulla guerra.
Quello che non manca mai nel rock dei Pearl Jam è la forza della natura, specie nella sua dimensione acquatica. Il mito dell’onda, da sempre metafora preferita di Vedder, da Oceans, singolo di Ten, al bellissimo verso di Tremor Christ su Vitalogy («the smallest oceans still get big big waves»), è presente in 5 brani su 13 e ad uno addirittura dà il titolo. Big Wave, con un grande gioco di prestigio di Jeff Ament al basso, è il rito tribale che la band non disdegna di pagare al mito. Il disco si chiude con Inside Job, una classica introspezione vedderiana, fatta di autoanalisi, frasi spezzate e un cantato che torna a volare alto. Quella di Vedder è ancora una volta la voce dell’oceano e l’anima di una grandissima band a cui non è mai mancata la dignità, anche nei momenti peggiori, e che ora sembra tornata per restare.
Titolo: Pearl Jam Etichetta: J Records Brani: Life Wasted / World Wide Suicide / Comatose / Severed Hand / Marker In The Sand / Parachutes / Unemployable / Big Wave / Gone / Wasted Reprise / Army Reserve / Come Back / Inside Job Produttori: Pearl Jam & Adam Kasper
Discografia: Pearl Jam (2006) Live at Benaroya Hall (live, 2004) Lost Dogs (b-sides, 2003) Riot Act (2002) Binaural (2000) Live On Two Legs (live, 1998) Yield (1998) No Code (1996) Vitalogy (1994) Vs. (1993) Ten (1992)
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