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Un nome nuovo per il rock italiano. Intervista a Fabrizio Coppola

“Una vita nuova”, secondo lavoro di Fabrizio Coppola, è un disco che conquista poco a poco, fino ad entrarti dentro con la sua malinconia e con immagini semplici eppure vive e commoventi. Quelle di “Una vita nuova” sono quattordici ballate ora intimiste ora dal netto sapore cinematografico, ora springsteeniane ora odorose di quella musica d’autore italiana che da Tenco e Paoli arriva fino a Morgan e Benvegnù. Certi di ritrovarlo ancora protagonista tra qualche stagione, magari baciato da un meritato successo, parlando con Fabrizio abbiamo focalizzato l’attenzione soprattutto sull’ultimo disco, specchio di un momento, quello attuale, di grande felicità creativa.
Come sono nate le canzoni di “Una vita nuova”?
E’ stato un percorso piuttosto lungo, per scrivere i brani ci è voluto più di un anno di lavoro. Ho cercato di essere il più chiaro possibile nei testi, scegliendo con cura ogni parola, e di lavorare sulle strutture in senso classico, riff-strofa-ritornello, per intenderci. Quando ho cominciato a lavorare con il gruppo sugli arrangiamenti avevo pronte una trentina di canzoni. In pre-produzione siamo passati a 18 e dallo studio siamo usciti con questa raccolta di 14 episodi.
Le quattordici canzoni dell’album sembrano concatenate tra loro. Ci sono immagini ricorrenti (il segno nero, il taglio nello stomaco…). Come mai?
E’ vero, ci sono delle immagini che si ripresentano nelle diverse canzoni, forse perché anche a livello di tematiche il disco è piuttosto omogeneo. Quando scrivo ci sono delle immagini che mi colpiscono molto e che tendo a ripetere in più canzoni e a volte succede che alla fine del lavoro alcune cose si ripresentino più volte.
Tutti i testi malcelano un certo malessere legato ad un’assenza importante, come se “quello che non c’è” facesse capolino appena può. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo. Si parla molto di assenza in questo disco, dell’assenza di cose, persone, sentimenti. L’assenza molte volte è la molla che spinge i personaggi a muoversi alla ricerca di ciò che non hanno.
Credo che un ipotetico ascoltatore che non sappia nulla di te e della tua musica farebbe fatica a collocare nel tempo “Una vita nuova”, che spesso suona come un disco degli anni Settanta. Era una tua precisa volontà quella di creare un suono vintage?
Sì, è stata una scelta precisa, già quando scrivevo le canzoni avevo in mente quel suono. Ho cercato di mischiare le mie influenze, ho inserito nella band un pianista organista per avere un suono più strutturato. Poi prima di entrare in studio ho discusso a lungo con Simone Chivilò, il mio coproduttore artistico, del suono che volevo e delle idee che avevo in mente. Il suo apporto è stato determinante per ottenere l’impasto sonoro che caratterizza il disco.
La mia impressione è che “Una vita nuova” sia un disco immediato solo in apparenza e che per coinvolgere abbia bisogno di ascolti ripetuti. Cosa ne pensi?
Mentre lo stavamo registrando mi sembrava un disco molto immediato, adesso devo dire che sono d’accordo con la tua analisi. Ci vogliono sicuramente ascolti ripetuti per entrarci, anche perché è un disco fatto di storie, che vanno seguite parola per parola. Poi in scaletta ho volutamente inserito episodi più leggeri, in cui magari il suono, il ritmo e l’andamento contano più del testo in sé. In definitiva penso che questo sia un disco da ascoltare con cura, ma capace di svelare nuovi particolari a ogni ascolto.
Cosa puoi dire delle tue influenze springsteeniane?
Io sono cresciuto ascoltando il rock americano, ne ho sempre amato le modalità espressive e anche la forma, spesso rigorosa. Sono rimasto molto influenzato dalla capacità di questi artisti di infilare storie descritte con grande precisione nel tempo di durata di una canzone pop, ed è quello che cerco di fare anche io.
In questi giorni, tra l’altro, ricorre il trentesimo anniversario di “Born to run”. Le utopie di quel disco sono qualcosa in cui hai creduto, almeno per un periodo della tua vita?
Devo dire che Born to Run non è il mio disco preferito di Springsteen però ha una forza, sia lirica che musicale, che non può lasciarti indifferente. E’ un disco molto romantico, con l’idea della fuga e della ribellione in primissimo piano, e allo stesso tempo è fisico e selvaggio.
Il 2005 è stato un anno ricco di uscite discografiche importanti: a quale daresti l’Oscar?
Quest’anno ci sono due dischi che in particolare mi hanno colpito molto, “Road to Rouen” dei Supergrass e “Howl” dei Black Rebel Motorcycle Club, questi ultimi li ho visti anche in concerto e mi sono piaciuti molto.
E tra le uscite italiane?
Beh, in campo italiano è più difficile da dire, i miei dischi italiani preferiti del momento risalgono all’anno scorso... ma l’anno non è ancora finito quindi...
Ti ho intravisto alla tappa conclusiva del tour di Paolo Benvegnù, che compare anche nei ringraziamenti del tuo disco. Siete amici?
Ci siamo conosciuti un paio d’anni fa quando ho aperto due suoi concerti ed è scattata subito una sintonia particolare. Purtroppo riusciamo a vederci e a fare quattro chiacchiere solo in occasione dei concerti, vivendo lui a Firenze e io a Milano.
Pierluigi Lucadei
Leggi la recensione di “Una vita nuova”:
http://win.ilmascalzone.it/re142.htm
 
Cultura e spettacolo – mercoledì 8 febbraio 2006, ore 11.05

 Claudio Palestini

Interviste

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