La Palestina di Enrico/12
Viaggio al nord della Cisgiordania/3 Campo profughi di Jenin. Ci accoglie una fitta pioggerella, è venerdì, le strade sono semideserte, la nebbia avvolge il campo, sfuma i contorni delle case e impallidisce le nostre figure. L’atmosfera è surreale, sembriamo fantasmi che vagano per la città deserta. Mi chiedo dove siano finiti gli abitanti del campo: solo qualche ragazzino curioso si affaccia dalle case. La nostra guida ci segnala l’enorme numero di case verniciate di arancione: sono le abitazioni distrutte durante gli scontri tra l’esercito israeliano e la resistenza palestinese nell’aprile del 2002.
Durante l’operazione “Scudo Difensivo”, guidata dall’allora Primo Ministro Ariel Sharon, i mezzi pesanti israeliani hanno occupato e completamente isolato il campo dal resto del mondo per 11 giorni: si contarono circa 60 morti palestinesi e centinaia di case furono rase al suolo. Il campo era letteralmente ridotto ad un cumulo di macerie.
Adesso serve uno sforzo dell’immaginazione per figurarmi come potesse apparire il campo dopo la devastazione israeliana. Devo cancellare con la mente tutte le case ora ricostruite in arancione, devo immaginarne molte altre sventrate, fori di proiettili ovunque. Persone che si disperano sulle macerie, contano i morti della propria famiglia, raccogliendone i resti. Non posso non pensare a quanto è accaduto a Gaza. Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun scrive nel suo “Jenin, un campo profughi palestinese”: Il diritto non esiste più. È del più forte. Il diritto è come un fiore, e non ci sono più fiori nei nostri campi. Il diritto abita su un tank, su un bulldozer, su un cannone puntato contro i civili. Forse solo la poesia sarà testimonianza di tanta ingiustizia, sul banco della storia.
Campo profughi di Balata. Il più affollato della Cisgiordania. Manca persino l’aria per respirare. Ogni centimetro di spazio è stato utilizzato per costruire abitazioni: nel campo vivono 25 000 persone in poco più di un chilometro quadrato. Provate ad immaginare cosa significa: un carnaio, un continuo viavai di gente, grida colori e odori, tutto ammassato, stipato, condiviso. Il record lo ha un edificio di quattro piani, due appartamenti ciascuno: otto fratelli, otto famiglie, per un totale di 84 persone. “Qui la privacy è un concetto inesistente - ci spiega un amico del campo - tutti sanno praticamente tutto di ognuno, persino quante volte va al bagno”.
Camminiamo in fila indiana per le stradine larghe mezzo metro, mi sforzo di ascoltare la nostra guida che, con una punta di orgoglio, ci dice: “Il campo è sempre stato uno dei più attivi politicamente… durante l’ultima Intifada ha avuto il più alto numero di martiri. Perché? Noi rifugiati abbiamo avuto la perdita più grande, Casa Terra Identità, abbiamo qualcosa di bruciante per cui lottare, un torto da raddrizzare”.
Non finirà mai di stupirmi l’incontenibile vitalità dei palestinesi nei campi profughi, malgrado le privazioni e le umiliazioni che subiscono fin dalla nascita. Le bocche sbocciano in sorrisi larghi ed ospitali, da ogni minimo gesto trapela altruismo e generosità, il rito del tè alla menta e del caffè arabo, la scintilla di speranza intravista negli occhioni neri e profondi: sono tratti comuni talmente forti e radicati in questa gente che 41 anni di occupazione non hanno minimamente scalfito. Mi piace pensare che l’impresa più eroica e una delle più alte forme di resistenza del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana consiste nell’aver custodito intatte la bellezza, la tenerezza, la grazia e l’umanità. Enrico Bartolomei
Nelle foto: il campo profughi di Jenin, con i poster dei martiri, le abitazioni crivellate dai proiettili e le "case arancioni" ricostruite dopo la devastazione del campo nell'aprile 2002. Le strette viuzze dell'affollatissimo campo di Balata.
Pubblicato il 23/4/2009 alle ore 16:37
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