Aa.Vv. “To: Elliott From: Portland”
La cosa più triste è che quando Elliott Smith decise di andarsene, nell’ottobre del 2003, nessuno si sorprese più di tanto. Come fosse l’unica uscita di scena possibile, Elliott se ne andò in silenzio, senza creare clamori, senza alimentare troppe chiacchiere o sospetti. Che il suo tono d’umore non fosse mai stato alto era noto. Che avesse problemi con l’eroina anche. Così come aveva vissuto, da loser sistematico, da antidivo per antonomasia, depresso senza apparire disperato, così bravo e scostante da non poter diventare mai realmente famoso, da persona qualunque incurante del proprio talento, Elliott Smith si è tolto la vita, forse non immaginando di lasciare un vuoto grande così nel mondo musicale che allo stesso modo l’aveva amato, in silenzio, senza troppi clamori. Della sua generazione Elliott non è stato portavoce, non ne avrebbe avuto la forza, ma uno dei cantautori più dotati sì, ed ora la mancanza dei suoi testi e della sua chitarra si sente. Il successo vero non l’ha mai conosciuto, anche se, quando il concittadino Gus Van Sant inserì alcuni suoi brani nella colonna sonora di “Will Hunting – Genio ribelle”, riuscì addirittura a ottenere una nomination all’Oscar con la splendida Miss Misery. Poco incline alle luci della ribalta, l’immagine che di lui ci resta è quella di un ragazzo troppo timido per guardarti negli occhi, che riversa le sue emozioni dentro canzoni bellissime, con melodie degne dei Beatles ma con testi ben più profondi, con un berretto di lana calato sopra lo sguardo triste e i capelli sporchi.
“To: Elliott From: Portland” è un tributo che, una volta tanto, non fa pensare ad una mera operazione commerciale, una raccolta di canzoni così sentita, autentica e piena di amore che quindici artisti e gruppi concittadini di Elliott hanno deciso di dedicare alla sua figura artistica e umana. Le canzoni di Elliott sono schegge di bellezza impazzita, ogni musicista coinvolto ha avuto il rispetto e l’orgoglio necessari per far suo un pezzo di storia della musica d’autore degli ultimi quindici anni. D’altra parte c’è in azione il meglio della scena indie-rock di Portland: ci sono i Decemberists che rifanno Clementine, gli Helio Sequence che interpretano Satellite, Jeff Trott che fa sua Wouldn’t Mama Be Proud. E poi una delle canzoni più belle di Elliott, Ballad of Big Nothing (con lo splendido ritornello «puoi fare tutto quello che vuoi, ogni volta che vuoi, anche se non significa niente, un bel niente»), nella pregevole versione dei Thermals; Division Day nella versione alla R.E.M. dei We Are Telephone; Needle in the Hay, capolavoro di dolore reso ancora più solenne nella versione tombale di Eric Matthews. Quasi tutti gli artisti coinvolti nel tributo conoscevano personalmente Elliott e ci avevano suonato insieme. Tra questi Sean Croghan, amico e musicista tra i più vicini ad Elliott, che per l’occasione ha tirato fuori un brano inedito, High Times. «Dopo la sua morte ho trascorso parecchio tempo ad ascoltare tutte quelle registrazioni che aveva fatto in casa e che mi aveva lasciato», dice Croghan nelle note introduttive a “To: Elliott From: Portland”, «High Times mi lasciò di stucco. Mi ricordai di avergliela sentita suonare dal vivo qualche anno prima, ma mai avevo avuto l’opportunità di ascoltare la versione registrata. La canzone è la storia, se si vuole anche profetica sul rapporto di Elliott con le droghe, di una qualche anima persa qua a Portland (ebbene sì, questa città ne è piena), per la prima volta alle prese con il problema della tossicodipendenza… Elliott è stato mio compagno di stanza, amico e complice. Ricordo momenti molto difficili quando lui lasciò Portland per New York. Elliott non era il tipo che amava il telefono e già sapevo che, non appena se ne fosse andato, non ci avrei più parlato fino al suo ritorno. Avevo perso la persona con cui confidarmi, la mia ispirazione e soprattutto, la cosa più dolorosa, il mio migliore amico. Ogni tanto ci pensavo, nella speranza che un giorno sarebbe tornato. Purtroppo non è andata così. E adesso, non solo a me, ma al mondo intero, mancano il suo immenso talento, il suo timido sorriso e tutte quelle promesse che non è riuscito a mantenere.» Non è difficile immaginare il Bob Hughes di “Drugstore Cowboy” aggirarsi fremente e affamato per le strade della sua città sulle note d’inferno di High Times o di Between the Bars e King’s Crossing («non posso preparare la morte più di quanto abbia già fatto»). Commovente.
Steven Paul Smith detto “Elliott” (6 agosto 1969 – 21 ottobre 2003)
Etichetta: Santeria / Audioglobe Brani: Clementine (The Decemberists) / Satellite (The Helio Sequence) / The Biggest Lie (Dolorean) / Ballad of Big Nothing (The Thermals) / I Didn’t Understand (Swords) / Rose Parade (Sexton Blake) / Between the Bars (Amelia) / Needle in the Hay (Eric Matthews) / Division Day (We Are Telephone) / Angeles (Crosstide) / Wouldn’t Mama Be Proud (Jeff Trott) / Speed Trials (Knock-Knock) / King’s Crossing (To Live & Die in L.A.) / Happiness (Lifesavas) / High Times (Sean Croghan)
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