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"Una volta ero strafatto" (Edizioni Clandestine, 2007) |
“Una volta ero strafatto”
A vederlo di persona Agostino Palmisano assomiglia ad un Dostoevskij anni settanta che lavora in qualche officina metalmeccanica di terzo ordine. Infatti lui in una officina ci ha veramente lavorato. Ora si è rimesso a studiare al conservatorio alla bellezza di ventinove anni. E quando gli chiedo cosa c’entra la poesia in tutto questo lui risponde “Vorrai dire cosa c’entra tutto questo con la poesia!” Agostino Palmisano è soprattutto un poeta con la ‘p’ maiuscola, ed un poeta con le palle, palle con la ‘p’ maiuscola. Le Edizioni Clandestine di Marina di Massa ha appena pubblicato la sua raccolta d’esordio “Una volta ero strafatto”. Adesso tutti penserete: ecco un altro fuso di testa che si fa le canne e che racconta di quanto è poetico farsi le canne. Bé, niente di tutto questo. Agostino Palmisano subito ci tiene a precisare: “Col tempo sono arrivato alla conclusione che il mondo è strafatto. Tutto, al completo. La realtà è un’alterazione allucinogena. La poesia è stato il mezzo che mi ha permesso di uscire dal trip. La poesia ti permette di vedere tutto nitido, chiaro e pulito. Ecco perché il titolo è declinato al passato, spero proprio di esserne uscito. Non c’è bisogno delle droghe per sentirsi sballato. Penso che ormai posso definirmi pure astemio. Basta vivere come vive il novanta percento della popolazione mondiale e ti senti nel peggiore incubo alla morfina di un Burroughs.” Sante parole, a giudicare dal traffico che fa finta di scorrere, qui in piazza Dalmazia a Firenze alle ore diciotto di un martedì di febbraio. Poi passo ad una domanda specifica: Dal titolo di molte poesie si evince la tua passione per gli anni sessanta. Penso a ‘ODE A MORRISON’ , ‘ODE A KEROUAC’, ‘IO E PASOLINI’. Nostalgia o appartenenza ideologica? “Poche poesie hanno un titolo, la maggior parte sono solo numerate. Comunque non sono né un nostalgico né tanto meno un ideologo degli anni sessanta. È semplicemente che mi sono formato con gente come Morrison, Kerouac e Pasolini ed ho solamente voluto rendere omaggio a loro e al loro lascito intellettuale.” Non fa una piega. E quindi lo voglio punzecchiare: Come definiresti la tua poesia? Psichedelica, impegnata o che altro? “Psichedelica proprio no. Impegnata sì, se intendiamo che dentro c’è tutto il mio impegno nello sbattere sul muso del lettore tutto ciò che penso, su tutto”. Questo è un assist esplicito. A me sembra che Bukowski ti abbia dato una grande mano nel cercare la maniera migliore per dire ciò che vuoi dire, o sbaglio? “Se stai insinuando che scopiazzo Bukowski dimmelo che ti spacco il c..o! (risate di entrambi) Per tornare seri dico che hai visto bene. Per me Bukowski è quello che sapeva dire le cose nella maniera più semplice e potente possibile. Ed io voglio essere semplice e potente.” A questo punto arriva l’autobus che ci separa ma i pochi minuti a disposizione sono stati più che sufficienti per riconoscere un poeta vero, pulito, con uno stile tutto suo, che non vuole essere il padre eterno per nessuno. Insomma il nostro Bukowski. Ed era anche ora che arrivasse.
Luca Dell’Abate
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Cultura e Spettacoli |
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il 15 Mar 2007 alle 20:09 |
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