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Antony and the Johnsons “The Crying Light”

di Pierluigi Lucadei

Quaranta minuti tra i più emozionanti mai sentiti negli ultimi anni. Con il terzo lavoro sulla lunga distanza, Antony giunge al perfetto equilibrio tra le parti che sostengono la sua musica e realizza il suo capolavoro. Quella voce ultraterrena, tremula, difficile da descrivere a chi non l’ha mai sentita (la rivista Spin l’ha definita “simile al suono di un sassofono”, la BBC “qualcosa a metà strada tra la voce di una diva jazz e il pianto di una bestia ferita”), indimenticabile per chi si è lasciato trafiggere anche una sola volta, si accredita definitivamente come la voce del decennio che sta per concludersi, come quella di Jeff Buckley lo era stata degli anni Novanta. Antony è un autodidatta. Ha imparato a cantare divorando i propri idoli, da Nina Simone a Otis Redding, ma anche Diamanda Galas e Miriam Makeba oppure Marc Almond e Boy George. Quella voce sorretta dalla grazia, capace di spostarsi naturalmente dal tenore al contralto, tocca spesso in “The Crying Light” vertici di intensità difficilmente sostenibile.

“The Crying Light” è uno di quei rari dischi il cui primo ascolto non si dimentica perché, letteralmente, pietrifica. Trattasi davvero di opera assoluta, oltre lo status di classico che Antony sembra aver attaccato addosso sin dal suo primo apparire. Quasi trenta musicisti coinvolti, quattro arrangiatori e strumenti che vanno dal flauto all’arpa, la copertina dedicata a Kazuo Ohno, creatore della danza Butho, “The Crying Light” è l’album della maturità in cui Antony si scrolla di dosso le tematiche connesse al proprio io che caratterizzavano i primi due album, cerca interlocutori al di fuori di sé e aspira all’universalità, parla la lingua della natura, parla con la natura.

Her Eyes Are Underneath the Ground è l’inizio della dissertazione sui temi della morte e della vita che mai come stavolta rimano con gli elementi naturali dei quali Antony fa meraviglia. La morte simboleggiata dalla terra e la vita dal fiore che dalla stessa terra germoglia si rincorrono per tutto il pezzo, fino alla chiusura inquietante per solo violoncello che sembra preludere ad un seguito buio.
E invece Epilepsy Is Dancing è geniale musica da ballo, così come Kiss My Name, un quasi-walzer che arriva poco dopo a ribadire l’immagine sublime di un bambino che danza sulla neve («kiss my name/mama in the afterglow/when the grass is green with grow/and my tears have turned to snow» fa eco a «epilepsy is dancing/she’s the Christ now departing/and I’m finding my rhythm/as I twist in the snow»). Nel mezzo è incastonata One Dove, una carezza di malinconico stupore che richiama certo Nick Cave del periodo “No More Shall We Part”.

Another World, già conosciuta dall’ep uscito lo scorso anno e già definita una Bridge over Troubled Water per la Terra che muore, è la canzone centrale, dal punto di vista musicale la più misurata, da quello filosofico la summa di “The Crying Light”, una sorta di passaggio di consegne da una natura vecchia ad una nuova visione delle cose, una visione candida e fanciulla, capace di percepire e rendere le emozioni senza filtri («I need another world/this one’s nearly gone/I’m gonna miss the birds/singin all there songs/I’m gonna miss the wind/been kissing me so long»). E’ pure una natura visionaria quella di “The Crying Light”, nel cui cuore scuro Antony cerca percorsi d’amore, tra gli alberi, nei laghi, in mezzo alle paludi si dimena con l’animo in pena, i suoi dolori su ali di gabbiani, puri come cristalli. In questo senso il rigore e la sacralità di Another World preparano il terreno alle soluzioni melodiche di Daylight and the Sun, inno al più grande dono della natura nuova, la luce che nasce dal sole, dal fuoco («you gave me this/your fire becomes a kiss»).

Aeon è la canzone in cui, in un verso di forza devastante («hold that man I love so much»), per la prima volta nella carriera di Antony la voce lascia cadere l’artificio che ineluttabilmente sembra vestire tutta la sua estetica transgender e, nel modo più diretto possibile, parla a Aeon, ragazzo appena nato, di suo padre, anzi non parla e neanche canta, grida. E’ un grido inaspettato, per di più lanciato sopra un’altrettanto inaspettato giro di chitarra elettrica satura che si ripete per quattro minuti e fa del pezzo la vera sorpresa di “The Crying Light”.
E l’emozione non accenna a placarsi nel finale con Dust and Water, un mantra sorretto dalla sola voce di Antony, e, soprattutto, con Everglade, il pezzo più teatrale e maestoso di tutta la raccolta, con l’orchestrazione di Nico Muhly. Proprio al minimalismo barocco di quest’ultimo e del suo maestro Philip Glass sembra potersi accostare “The Crying Light”, non fosse altro perché a metà strada tra il (più) barocco “Antony and the Johnsons” e il (più) minimale “I Am a Bird Now”. E’ sufficiente provare ad abbassare le luci, sedersi sul divano, mettere Everglade nelle cuffie e pensare al nostro più importante ti amo per rendersi conto di come nessun artista oggi colga meglio il rovescio della vita e da lì sappia trovare la strada che porta solamente al cielo.


Etichetta: Secretly Canadian/Rough Trade  Anno: 2009
Brani: Her Eyes Are Underneath the Ground / Epilepsy Is Dancing / One Dove / Kiss My Name / The Crying Light / Another World / Daylight and the Sun / Aeon / Dust and Water / Everglade
Arrangiamenti: Antony, Nico Muhly, Maxim Moston e Doug Wieselman


 Pierluigi Lucadei

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 Articolo letto 8434 volte. il 24 Jan 2009 alle 19:06
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