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"Years Of Refusal" (Polydor/ Decca, 2009)

Morrissey “Years Of Refusal”

Perché quando si mettono gli Smiths nello stereo non costerebbe nessuna fatica aggiungere un pugno di primavere sulla propria carta d’identità se questo significasse ricordare l’emozione di aver avuto sedici anni e di aver sentito proprio a quell’età, appena uscite, There Is A Light That Never Goes Out e Bigmouth Strikes Again? Perché l’autore di quelle canzoni coglieva come nessun altro il teen spirit del suo tempo, lo ribaltava in musica con l’ispirazione del poeta, lo cantava con una voce da cui era impossibile staccare le orecchie e condiva il tutto con un sarcasmo e un’ironia che in troppi non hanno saputo cogliere ma che rendevano quella musica prossima in modo pericoloso alla perfezione pop. Pericolosa soprattutto per l’autore in questione, Steven Patrick Morrissey, che, conclusa l’esperienza Smiths, si è sbattuto per anni per ritrovare nella sua incostante carriera solista la stessa cattiveria e lo stesso piglio e lo stesso romanticismo e la stessa epicità. Neanche “Years Of Refusal” è il capolavoro che continuiamo ad aspettarci dal Morrissey solista e che un musicista del suo talento non può non consegnare alla storia; però, sulla scia dei precedenti “You Are The Quarry” e “Ringleader Of The Tormentors”, è un insieme di canzoni belle e in alcuni casi strepitose e costituisce, proprio con questi ultimi due titoli, un’ideale trilogia del rock d’autore del decennio che sta per concludersi.
Con Something Is Squeezing My Skull “Years Of Refusal” inizia nel segno di una straripante satira della modernità senza amore senza speranza senza amici («oh, something is squeezing my skull/something I can’t fight/no true friends in modern life») e piena di malachimica, maniacalmente dettagliata e derisa («diazempam, valium, tamazepam, lithium, HRT, ECT/how long I must stay on this stuff?/please don’t give me more»). I’m Throwing My Arms Around Paris e That’s How People Grow Up parlano d’amore dal canceroso punto di vista dell’assenza: nel primo titolo Morrissey abbraccia un’intera città perché non trova la persona che possa accettare il suo amore («I have decided I’m throwing my arms around Paris/because only stone and steel accept my love»); nel secondo si rivolta contro il vuoto («I was wasting my time/praying for love/for a love that never comes/from someone who does not exist») e lascia vedere il veleno agli angoli della bocca («there are things worse in life/than never being someone’s sweetie»). One Day Goodbye Will Be Farewell dimostra come la new big thing del rock britannico, i Glasvegas, abbia preso in prestito qualche soluzione di troppo dalla lezione del Moz, mentre When I Last Spoke to Carol è un momento di piacevole sorpresa, con quegli inaspettati suoni mariachi. It’s Not Your Birthday Anymore è un brano che, per quanto privo di novità, rappresenta alla perfezione un atto di sconsolata adorazione, in quel (non)luogo sentimentale in cui da sempre il Moz si dimena, tra amore e solitudine, in quella ferita che separa il pieno dal vuoto, il darsi dal ritrarsi. E subito dopo arriva il punto più alto del disco: You Were Good In Your Time, un brano dedicato a un qualche eroe non meglio specificato, uno che ha saputo dire tanto («you said more in one day/than most people say in a lifetime»), bene e col cuore in mano («you made me feel less alone»), uno che forse potrebbe essere Moz stesso. Il disco sarebbe dovuto finire qui. Dopo tanta intensità, i due veementi brani posti in chiusura (Sorry Doesn’t Help e I’m OK By Myself) non aggiungono nulla a quanto detto prima e costituiscono, con Black Cloud e la già nota All You Need Is Me, i punti più deboli di un disco comunque buono.

PS#1 - L’avvertenza è d’obbligo per chi non è uso alla voce di Morrissey e pleonastica per tutti gli altri: queste canzoni danno un’inquieta(nte) e piacevole dipendenza e, una volta infilato il disco nello stereo, per giorni non ascolterete altro.
PS#2 - Da Morrissey, che ha recentemente annunciato che “Years Of Refusal” sarà il suo ultimo album, ci aspettiamo che faccia retrofront e ci consegni magari alla prossima occasione quel capolavoro che ci ha già regalato con gli Smiths (“The Queen Is Dead”) ma che da solo ha anche stavolta mancato.


 Pierluigi Lucadei

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 Articolo letto 6251 volte. il 08 Mar 2009 alle 22:04
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