Nel 1968 un serial killer misterioso comincia una fitta corrispondenza con la polizia di San Francisco firmandosi sempre con lo stesso inquietante soprannome: Zodiac. La polizia dopo i comprensibili iniziali tentennamenti scopre che il fantomatico assassino ha effettivamente ucciso almeno sei persone, anche se il numero di vittime che egli stesso rivendica è decisamente più alto: ben trentasette. David Fincher, uno dei più acclamati registi di thriller contemporanei (“Seven”, “Fight club”, “Panic room”) torna dopo un considerevole lasso di tempo lontano dalla macchina da presa ad indagare le pieghe dell’animo umano e quell’universo ignoto e impenetrabile quale è la mente. Stavolta il suo compito è apparso più complesso fin dai primi tempi della lunga realizzazione (è noto nell’ambiente infatti il famoso metodo Fincher, con il regista pronto a far girare la più banale delle sequenze anche 100 volte): una storia vera cui restare fedeli anche ripercorrendo scelte compiute da altri cineasti (non si tratta infatti del primo film dedicato alle gesta del serial killer californiano) ma altresì non perdere di vista le caratterizzazioni e i tratti dei vari personaggi mantenendo alto ed avvincente il ritmo della narrazione, alle volte forse un pò calante. Ciò che emerge da “Zodiac” e dalla vicenda sanguinaria ed assassina che viene raccontata è la diversità di un tale progetto, concentrato in un susseguirsi di deviazioni ed ossessioni umane, un confronto fra le diversità e le nevrosi non solo dell’assassino (pazzo per l’enigmistica, i richiami cinematografici e il caso) ma anche del poliziotto che tenta di svelarne l’identità e dei vari personaggi che si mettono sulle sue tracce, in una caccia del gatto col topo passata alla storia della cronaca nera americana. A coadiuvare il lavoro di Fincher attori di assoluto richiamo: oltre ai protagonisti Robert Downey Jr. (all’ennesima dimostrazione del suo enorme e spesso inutilizzato talento) e Jake Gyllenhall (“Donnie Darko”, “Jarhead”, “Brokeback Mountain”) ad elevare il livello del cast ci sono anche l’ottimo Mark Ruffalo, la convincente Clea Duvall e il veterano Brian Cox; sono i primi due comunque a fornire gli spunti più interessanti di questo thriller atipico rappresentando due personalità del grande schermo di sicuro impatto, in grado di risollevare le sorti del film quando ormai sembra sul punto di arenarsi procedendo velocemente verso una conclusione ed infondendo invece un’inattesa vitalità. Questo è il cinema di Fincher, abile nel mascherare le proprie intenzioni registiche ed intrecciarle con le sue personalissime scommesse, assolutamente vinte anche con questo lavoro ingiustamente ignorato all’ultima kermesse di Cannes.