Si ripetono i casi di barbaria e ferocia umana legalizzata e consentita in nome della giustizia, di una giustizia assassina che al titolo di una legge si veste da boia.
È l’esempio iraniano, secondo cui almeno dieci donne si troverebbero ad attendere la disumana esecuzione della lapidazione, dopo le condanne assegnate dai tribunali di Teheran e Mashad.
Kobra Rahamanpour, 25nne, è uno dei casi esaminati dalla Corte Suprema del Paese. Destinata all’esecuzione il 12 ottobre, è stata condannata per aver ucciso la suocera che la perseguitava da anni. Stessa pratica spetterà a Shamameh Ghorbani, sentenziata per adulterio dopo che i familiari avevano trovato un uomo nella sua abitazione, così come Ashraf Kalhori e Hajjeh Esmaivand, anch’esse pronte all’esecuzione per la medesima condanna. Il loro caso, ora in riesame, è accompagnato ancora da altre ingiuste pene di morte, tutte secondo il tragico rituale dello scaglio della pietra: Parisa A., in attesa di imminente esecuzione per essere stata costretta a prostituirsi dal marito, una giovane 17nne che uccise un aggressore che cercò di violentarla, ed ancora una coppia ed il figlio di sei anni convertiti al cristianesimo, arrestati ed ora col rischio di una condanna a morte per apostasia.
Ma i casi non si fermano, e stilarli in una carrellata di nomi sembra un rituale ancora più amaro e crudele perché privo di possibile risposta all’ingiustizia delle sentenze. La brutale pratica è infatti ciò che potrebbe spettare anche a Fatemeh, il cui cognome è ignoto, in attesa dell’ingiustizia per “relazioni illecite”, cosi come Soghra Mola’i, rea di aver ucciso suo marito con la complicità dell’ amante, condannato anch’esso all’impiccagione e frustato per il rapporto “illecito” avuto con la donna.
Le vite di queste persone, in larga maggioranza donne, ora nel braccio della morte e pronte a ricevere la sentenza ultima, sembra però poter sperare nell’aiuto di Amnesty International. L’associazione umanitaria ha infatti chiesto l’intervento della comunità internazionale per salvare le loro vite, lanciando un appello urgente indirizzato alla Repubblica dell’Iran, con esplicita richiesta di fermare le condanne in questione.
Non è il primo caso di intervento dell’associazione, da sempre impegnata contro le sentenze di morte. Amnesty ha inoltre ribadito come l’Iran, nonostante le dichiarazioni affrontate nel 2002 secondo cui si impegnava a sospendere ogni condanna di lapidazione, abbia continuato con la spietata sentenza causando la morte di almeno due persone lo scorso maggio.
Dal suo canto la commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani ha stabilito come la sentenza penale per adulterio e la fornicazione non siano conformi agli standard internazionali sui diritti umani. Pertanto Amnesty ha ribadito che: “la sentenza di esecuzione della lapidazione per adulterio viola l’adesione dell’Iran all’articolo 6(2) del patto internazionale sui diritti civili e politici, secondo il quale le sentenze di morte sarebbero imposte ‘solo per i crimini più gravi’”...(gravi?).
Sta di fatto che ancora una volta, dopo i richiami della diplomazia internazionale e la mancata adozione effettiva degli accordi sulla moratoria del 2002, l’Iran trova davanti a se una strada piuttosto contraria ad ogni altro principio democratico, e dunque ad ogni altro Paese fondato su valori di rispetto nella convivenza tra chi è chiamato a vivere le conseguenze di un errore, piuttosto che a patirle al prezzo della vita.
A proposito della condanna per lapidazione, si è espressa inoltre Nicole Choueiry, addetta stampa di Amnesty International per il Medio Oriente, ribadendo chiaramente: “E’ ora che questa pratica brutale abbia fine. Non solo si viene privati, per mano dello Stato, del proprio diritto alla vita, ma si viene anche torturati durante il processo”. La legge islamica della sharia è infatti l’ennesimo esempio di ineccepibile ferocia umana, secondo cui il prigioniero viene sotterrato fino al petto, con le mani bloccate e dunque indifeso da ogni pietra scagliata. La legge specifica persino le dimensioni delle pietre da lanciare, così che la morte risulti più lenta e più dolorosa.
La pena di morte è di per se atto ingiusto, sentenza ultima operata dall’uomo nei confronti di un altro uomo, da un giudice chiamato allo stesso nome del condannato, che come lui si mostra uguale nei confronti della natura, ovvero quelli della vita, ma più di lui riesce a far valere la propria forza. L’atto diventa però ancora più brutale e disumano se sofferenza ed umiliazione sono parte di un gioco dove gli unici vinti siamo ancora noi col nostro carico di ingiustizie. Fermiamo ogni boia ed ogni pietra, di qualunque natura essa sia. Fermiamo l’ingiustizia della privazione alla vita.
(Sul sito www.Amnesty.it la raccolta delle firme per sospendere le condanne)