“Il Codice da Vinci” di Ron Howard
Presentato in anteprima mondiale al festival di Cannes e preceduto da un lancio pubblicitario senza precedenti (in Italia distribuito nella cifra record di 910 copie con la Sony che ha sborsato 4,5 milioni di euro solo nel nostro paese), "Il Codice Da Vinci" è finalmente sbarcato nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. Atteso, mistificato, attorniato da aspettative, curiosità ma anche dalle diffidenze che già circondavano il best seller di Dan Brown (da cui è ovviamente tratto il film di Ron Howard), il lungometraggio del regista di "A beautiful mind" già Richie Cunningham in "Happy days", fin da subito lascia un unico grande interrogativo: era proprio necessario trasporre questo controverso libro sul grande schermo? Se la logica da perseguire è quella del successo economico a tutti i costi, il risultato appare fin dalle prime proiezioni alquanto garantito - 2 milioni di euro incassati in Italia soltanto nel primo giorno. Ma se i parametri da inseguire e a cui fare riferimento sono invece lontani dalle logiche del marketing e del mercato, il discorso cambia radicalmente. È chiaro fin da subito che il film non è un capolavoro e che non potrà mai raggiungere il palese pathos descrittivo del libro e delle prime scene soprattutto, quelle in cui il curatore del Louvre corre inseguito dal malefico monaco albino dell’Opus Dei (un magnifico e cattivissimo Paul Bettany), che perdono rispetto alle pagine del libro quell’aria di mistero e thrilling a discapito di una versione cinematografica sicuramente più piatta. Tutto sembra assolutamente segnato fin dalle prime battute: il film non riuscirà a ripercorre quell’ansia adrenalinica presente nel best seller di Dan Brown, forse a causa di una regia lenta dove Ron Howard appare totalmente spaesato, abituato forse alle storie strappa lacrime come "Apollo 13" e il già citato "A beautiful mind"; il film sembra avere tutto per poter piacere al pubblico, ma alla fine lascia una sorta di amaro in bocca ed un senso di assoluta incompletezza. Anche il cast dividerà l’opinione pubblica: il personaggio dello studioso Robert Langdon interpretato da uno stralunato Tom Hanks non convince, così come il commissario di polizia Bezu Fache–Jean Reno, mentre colpiscono Audrey Tatou–Sophie Neveu, il già menzionato Paul Bettany e Ian McKellen–sir Leigh Teabing per il loro charme, la violenza descrittiva dei propri personaggi e la capacità di calarsi in ruoli quantomeno complessi. Incomprensibili anche alcune divergenze rispetto al libro, concentrate soprattutto nel concitato finale del film. "Il Codice da Vinci" versione cinematografica, così come quello cartaceo, creerà scompiglio e le più disparate posizioni; la Chiesa ad esempio, preoccupata per la propria immagine maltrattata dal romanzo, attraverso l’Opus Dei ha inviato una lettera alla Sony: "Il romanzo mescola realtà e finzione e non si capisce il limite fra verità e invenzione. Un lettore ignorante può giungere a conclusioni erronee. Sappiamo che la Sony sta pensando di porre all’inizio del film un annuncio per chiarire che si tratta di opera di fantasia. Sarebbe un gesto di rispetto verso Gesù e la storia della Chiesa". Del previsto avviso neanche l’ombra, ma soltanto l’idea di una ben accetta ulteriore dose di pubblicità con la derivata convinzione che se il metro di giudizio per questo lavoro è stato quello del marketing e del fare soldi, abbiamo finalmente trovato risposta alla domanda fondamentale: era proprio necessario questo film? Se c’è un ingente guadagno SI.
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