Esatto oblio narrativo: intervista ad Antonio Rezza
Autore, attore, performer e regista, Antonio Rezza è uno dei personaggi più originali mai apparsi sulla scena teatrale italiana. Nato a Novara una quarantina di anni fa, si diletta anche in avventure letterarie che sono culminate, lo scorso autunno, nella pubblicazione del quarto romanzo, “Credo in un solo oblio”, edito da Bompiani. Di quest’ultima fatica abbiamo parlato con Rezza, che non le ha mandate a dire a chicchessia, critici, teatranti, scrittori. E Dio.
Certo è un libro strano. Credo che sia un libro esatto. Per me dovrebbe essere studiato nelle Università, nelle facoltà di Architettura e di Fisica. Ho realizzato uno scheletro, che era uno scheletro inesatto, e poi ho continuato rimpolpando lo scheletro, non cercando mai di entrare in sintonia con il lettore. E’ la storia di uno che deve farsi una fotografia ma si muove nel momento dello scatto. Dal momento in cui muovendosi esce dalla fotografia, esce anche dalla sua identità ed entra nell’identità dell’umanità. L’esattezza di cui parlo è quella dell’entrare ed uscire dalla fotografia. La tua scrittura è volutamente antinarrativa. Il ruolo dell’arte è creare forme che la critica non possa analizzare. Arte e critica non parlano la stessa lingua. La critica forse parlerà la lingua dell’arte solo molto tempo dopo. Io devo fuggire dall’alfabeto in vigore in questo momento. Hanno più senso le recensioni che appaiono su internet, che usano un linguaggio più libero. La critica ufficiale arriva dopo. Lo stesso teatro è afflitto da un cancro che lo sta divorando, che è la narrazione. Non si può prendere la stessa posizione del pubblico, non si può cercare il plauso del pubblico creando una sintonia. Anche artista e pubblico devono parlare lingue diverse. Il pubblico non è imbecille, non lo si può trattare da imbecille attraverso lo strumento della narrazione. Tu però cerchi la risata. Ridere diventa un modo di essere. I momenti che preferisco sono quelli in cui creo il mio spettacolo e rido di quello che faccio. L’unica cosa che mi fa stare al mondo con qualche voglia di starci è ridere di quello che faccio. Quando poi ride anche il pubblico ti fa piacere, ma non sarà mai paragonabile alla risata privata che c’è quando sei da solo, quello è un tipo di risata che il pubblico non avrà mai. Un po’ come quando Trapattoni diceva che le cose che Platini faceva in allenamento non le avremmo mai viste in partita. Qual è il tuo rapporto con l’ironia e soprattutto col paradosso? Il paradosso non è una scelta ma una necessità per chi rifiuta a priori la realtà. Io non mi trovo bene, la realtà la detesto in ogni sua manifestazione, quindi quando scrivo in maniera paradossale rispondo ad una necessità biologica. Il libro è comico, di una comicità agghiacciata e agghiacciante. C’è una comicità sfrenata che però è dettata dalla totale perdita della speranza. Come mai hai posto una fotografia al centro della rappresentazione? La scelta è stata istintiva. Il protagonista è andato a finire in uno studio fotografico e da lì è partito tutto. Per me veramente la storia non conta nulla. La storia è l’invenzione più malvagia dell’uomo. Se i lettori sapessero cosa pensa di loro chi scrive storie non comprerebbero più libri. E’ così, anche se nessuno parla di questo razzismo nei confronti di chi segue le storie di libri, cinema, teatro. Bisogna guardarsi da chi si fa capire perché ci disprezza. Partendo dal titolo, “Credo in un solo oblio”, e arrivando alla fine del libro, che si chiude con una bestemmia, emerge un rapporto non certo felice con la religione. Dio per me è un suono, non un concetto. Non credo che esista. Non posso dimostrarlo adesso perché stasera ho lo spettacolo, ma se avessi più tempo lo dimostrerei. Dio non rappresenta un problema per me. La religione non è un male, il problema è lo Stato. La differenza tra Dio e lo Stato è che Dio non esiste, lo Stato sì. Quindi non si dovrebbe combattere la religione ma lo Stato. Quanto trovi vicino il teatro di Carmelo Bene? Ma non so. Se il paragone è con Carmelo Bene io ringrazio, ma se devo dire un nome che ha lavorato molto sulla fisicità direi Artaud. Sia Bene che Artaud hanno fatto un teatro non narrativo con la differenza che Bene ha preso i soldi dello Stato e Artaud no. Io sono un ignorante, non è un atteggiamento il mio sostenere di non leggere. Quindi se ti devo citare uno tra gli autori che non conosco dico Artaud. Tra gli autori che non conosci in ambito letterario, quale senti di consigliare come esempio di antinarratività? Mi hanno consigliato Canetti e mi è piaciuto. “Massa e potere” e “Auto da fé” sono libri molto interessanti, anche se non li ho finiti di leggere. Nel leggere libri provo una certa ansia. Se trovo una cosa bella, mi fermo lì, non continuo a leggere, ho paura che mi possa piacere troppo.
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