Speciale Nick Cave & The Bad Seeds
di Pierluigi Lucadei
Nessun artista contemporaneo può vantare una discografia, per costanza di ispirazione e qualità, paragonabile a quella di Nick Cave. Dal 1984, anno di battesimo dei Bad Seeds, l’artista australiano ha messo in fila un capolavoro dietro l’altro e ad un certo punto, da “Murder Ballads” in poi, ha toccato vertici di bellezza assoluta, imprescindibili per tutti e superabili da nessuno. E’ significativo quello che ha recentemente scritto Paolo Vites su “Jam”: “è un percorso, quello che ha portato l’australiano a questi vertici, cominciato ai tempi di “Murder Ballads”. Non che prima non avesse scritto almeno una manciata di irripetibili capolavori, tutt’altro; possono i Bob Dylan, i Lou Reed, i Bruce Springsteen, i Neil Young, i Van Morrison, guardando a quanto da loro inciso negli ultimi vent’anni, pensare di competere con un songbook che elenca brani come “Straight To You”, “The Mercy Seat”, “Nobody’s Baby Now”, “Do You Love Me?”, “The Wheeping Song” o “The Ship Song”, solo per citarne qualcuno? Onestamente e con tutto l’affetto diciamo di no”. Al discorso sulla bellezza delle canzoni incise da Nick Cave negli ultimi vent’anni ne affiancherei un altro. Nessuno dei grandissimi autori citati da Vites può vantare, nella propria discografia, una prolificità e una continuità di ispirazione ai massimi livelli per un periodo lungo vent’anni. Dylan e Springsteen già nei primi otto anni di carriera avevano scritto i loro capolavori, ed ora fanno due dischi a decennio. Neil Young e Lou Reed sono stati immensi nei Settanta, poi, con le dovute eccezioni (“Freedom”, “New York”) non sono più riusciti a fare cose altrettanto memorabili. L’ispirazione e la poesia di Cave non hanno mai avuto pause e quanto di miracoloso ci sia in questo è ancora più evidente se si considera il duro calvario che è stata l’esistenza dell’artista, segnata per anni da una brutta dipendenza da eroina. In tal senso, ha davvero del miracoloso come Cave non abbia mai perso la sua lucidità di poeta e la sua disciplina nel lavoro: ne è prova il fatto che nel momento peggiore della sua dipendenza sia riuscito a tirare fuori dal cilindro uno dei suoi album più riusciti di sempre, quel “Tender Prey” contenente gemme di rock apocalittico come “City Of Refugee” e “The Mercy Seat”.
Nato nella cittadina di Warracknabeal (Australia) il 22 settembre del 1957, Nicholas Edward Cave forma la sua prima rockband alla metà degli anni Settanta a Melbourne. Con lui ci sono il chitarrista Mick Harvey, il bassista Tracy Pew e il batterista Phil Calvert. Con il nome di The Boys Next Door i quattro pubblicano nel 1979 l’album “Door, Door”. Nel 1980 si ribattezzano The Birthday Party e volano a Londra per cavalcare l’onda del post-punk che ha nella capitale inglese il suo centro gravitazionale. “Prayers On Fire” è uno dei debutti più minacciosi e selvaggi della storia del rock, titoli come “Zoo-Music Girl”, “Nick The Stripper”, “King Ink”, “A Dead Song” sono decostruzioni a cui è impossibile mostrare indifferenza e fanno dell’album in questione il capolavoro del cosiddetto “rock tossico”. The Birthday Party fanno in tempo a registrare un altro album ed alcuni ep prima di sciogliersi causa tensioni interne e abusi di ogni tipo. A quel punto Cave partecipa all’Immacolate Consumptive Tour con Marc Almond, Lydia Lunch e Jim “Foetus” Thirlwell mentre Harvey lavora al progetto Crime & The City Solution. I Bad Seeds nascono dall’incontro di Cave e Harvey con Blixa Bargeld degli Einstuerzende Neubauten e debuttano nel 1984 col fondamentale “From Her To Eternity”, cui farò seguito, un anno dopo, “The First Born Is Dead”. Da allora la storia dei Bad Seeds non si è più fermata e, anno dopo anno, ha gradualmente abbandonato gli angusti spazi dell’underground per approdare ad un vero e proprio successo di massa. L’ossessione e la violenza della musica di Cave si è, col tempo, edulcorata e album come “The Good Son”, “The Boatman’s Call” e “No More Shall We Part” sono opere prettamente “cantautoriali”. Disco “diverso” e certamente unico nel panorama rock mondiale è “Murder Ballads” del 1996, baciato anche dal successo commerciale, un album a tema contenente dieci ballate sul tema dell’omicidio, tra cui episodi di bellezza indescrivibile come “Song Of Joy”. Se c’è una cosa che non è mai cambiata nel corso degli anni è l’ammirazione dei colleghi nei confronti di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds, ammirazione che ha germogliato discepoli come P.J. Harvey, Died Pretty, Dirty Three, Morphine, Tindersticks, Marlene Kuntz e tanti altri.
Discografia “B-Sides & Rarities” – 2005 “Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus” – 2004 “Nocturama” – 2003 “No More Shall We Part” – 2001 “The Best of Nick Cave & The Bad Seeds” – 1998 “The Boatman’s Call” – 1997 “Murder Ballads” – 1996 “Let Love In” – 1994 “Live Seeds” – 1993 “Henry’s Dream” – 1992 “The Good Son” – 1990 “Tender Prey” – 1988 “Your Funeral… My Trial” – 1986 “Kicking Against The Pricks” – 1986 “The First Born Is Dead” – 1985 “From Her To Eternity” - 1984
LIVE
Firenze, 30 novembre 2004
Nick Cave monolite del rock, totem senza tempo, maschera incredibile di dannato, sguardo luciferino, pallore cadaverico, spaventapasseri scavato e magrissimo. Il Nick Cave tutto fisicità dell’Abattoir Blues Tour lascia a casa la tunica del bravo cantautore per tornare bestia da palco. L’indice puntato verso il pubblico, smorfia minacciosa, fronte accartocciata, mai sentito parlare di happy ending da queste parti. Dappertutto è malsano e fradicio, paranoia gli accordi ripetuti di “Abattoir Blues”, meraviglia delle meraviglie, specchio di squallido. “Messiah Ward” fa affiorare le lacrime, tanto fa male, there is a war coming è un grido di violenza inaudita, Johnny Cash compare e scompare nelle parole del suo ultimo compagno, il Nick Cave straordinario attore che gioca con la sigaretta e posa come Humphrey Bogart quando everything is collapsing, all moral sense has gone. “Get Ready For Love” sconquassa, fa più terremoto che su disco, “There She Goes, My Beautiful World” costringe ai supplementari. E allora “Red Right Hand” vecchia bastarda, “Deanna” porta all’orgasmo, scappi chi può, you better run o Stagger Lee ammazza tutti, “The Ship Song” da segarsi le vene, e il solito martello, plumbeo ossessivo, il martello che pianta i chiodi nella carne del condannato. Dopo quel qualcuno che brucia i suoi ponti per salparci attorno, sempre e comunque tempi d’incubo. Il lato impuro dell’essere umano, orizzonte oscuro.
Scaletta: Abattoir Blues / Messiah Ward / Hiding All Away / Let The Bells Ring / Easy Money / Supernaturally / Babe, You Turn Me On / Breathless / Get Ready For Love / O Children / There She Goes, My Beautiful World;Red Right Hand / Deanna / The Wheeping Song / God Is In The House / City Of Refugee / Stagger Lee;The Ship Song / The Mercy Seat.
Ancona, 14 luglio 2002
Un personaggio elegante, allampanato, la sigaretta in bocca, sale sul palco puntuale, 21.45, accompagnato da tre brutti ceffi, anche loro eleganti, che si dispongono agli angoli del palco, ognuno col proprio strumento. Il personaggio allampanato siede al piano, pigia due tasti, ma è chiaramente infastidito, qualcosa non va. Il suono è ballerino, l'amplificazione non è perfetta. Un cenno di capo e i brutti ceffi tornano giù dal palco. Il personaggio allampanato si scusa col pubblico con un'alzata di spalle e due boccate di fumo, poi scompare anche lui. Rientrano un minuto più tardi, l'allampanato si risiede al piano e ripigia i due tasti di prima, visibilmente più soddisfatto e, con una tranquillità monumentale, sussurra "it began when they come took me from my home and put me in Dead Row", come fosse l'incipit di un pezzo qualsiasi e non di 'The Mercy Seat', la più bella canzone che sia mai stata scritta sulla sedia elettrica. Poi seguono canzoni dolcissime, 'There Is A Kingdom' e 'Into My Arms' da 'The Boatman's Call', che iniziano a scaldare il pubblico, a sciogliere i cuori, 'Hallelujah', 'God Is In The House', 'Darker With The Day', 'Gates Of The Garden' da 'No More Shall We Part', che ci ricordano quanto di mistico ci sia nella dannazione e quanto di dannato ci sia nella fede. Il cantante allampanato è bravissimo, flirta con la notte e lentamente la seduce. Il brutto ceffo che si agita di fronte al piano maltratta il suo violino come Jimi Hendrix faceva con la stratocaster. Si divertono insieme a rendere più doloroso l'omicidio di 'Henry Lee' e il pubblico fa fatica a rimanere seduto e si accalca sotto il palco. La notte a questo punto è quasi vinta, il cantante ce l'ha in pugno. Dopo i temporali di qualche ora fa, nel cielo fanno capolino le stelle. Cantano anche loro. Non può che essere una voce astrale quella che canta "come sail your ships around me and burn your bridges down”. E' proprio 'The Ship Song', ballatona pianistica per eccellenza, a chiudere la prima parte del concerto. Il personaggio allampanato torna al piano dopo una breve pausa e infila tre pezzi da brividi; ancora un brandello del suo divorzio da 'The Boatman's Call', 'People Ain't No Good', la domanda senza religione di 'Do You Love Me?' e l'irresistibile dialogo tra amanti di 'As I Sat Sadly By Her Side'. Dopo la giusta ovazione, i quattro musicisti abbandonano di nuovo la scena, stavolta sembra definitivamente. Ma il pubblico ha ancora fame, canta, urla, batte ritmicamente le mani. Il pubblico sa che serate come questa capitano una volta nella vita, e vuole che il vocione dell'allampanato torni un'ultima volta a lacerare gli avanzi di cuore ancora intatti. E lui torna, dopo una pausa molto più lunga della precedente, per il secondo bis. Ringrazia tutti i presenti con le braccia alzate, biascica qualche 'grazie'. Dalle prime quattro note di piano riconosco 'Love Letter' e mi tornano in mente tutte le volte che l'ho ascoltata pensando a Nico e a tutte le volte che ho rischiato di perderla per sempre, e invece lei adesso è qui, tra le mie braccia, la sua guancia sulla mia. Soltanto ora mi rendo conto che il cantante allampanato non è altro che Re Inchiostro in persona, ora che incrocia il mio sguardo, ora che sta cantando questa canzone per me. "Oh baby please come back to me"… non posso fare a meno di accompagnarlo nel coro. Un tuffo al cuore, come si dice. Potrebbe anche bastare, i ragazzi sotto il palco hanno gli occhi lucidi, consci di essere a pochi metri dal più grande artista degli ultimi vent'anni e di aver appena assistito al suo indimenticabile show. Ma c'è ancora tempo per la seconda 'murder ballad' della serata. Due tiri all'ennesima sigaretta, un sorso d'acqua minerale(!) e il Re si lancia in un blues infernale, con i suoi tre cortigiani che stuprano la notte ormai arresa e lasciva con un delirio sonoro dai contorni irrespirabili e malsani. La ballata in questione è 'Stagger Lee', una delle più eccessive e sboccate. E il pubblico ondeggia stavolta. Balla, e ondeggia.
ALBUM
Nick Cave & The Bad Seeds ”B-Sides & Rarities”
E’ successo che proprio qualche giorno prima dell’uscita di questo mini-cofanetto, ho fatto ascoltare un disco di Nick Cave ad un amico e questo ha riaperto antiche ferite. Quando mi ha detto quanto trovasse angosciante la musica del mio idolo ho storto il naso pensando, per un attimo, di poterlo strozzare, ma di colpo ho ricordato tutta l’angoscia che Nick Cave diede anche a me quando ho iniziato ad ascoltarlo. Da allora ne è passato di tempo e ne sono successe di cose. La sua voce ha smesso di essere angoscia e tormento, è diventata controcanto per miei pensieri, sollievo per i miei crucci, vizio poesia e dipendenza, per mesi non ho ascoltato altro. Nel corso degli anni Nick Cave l’ho amato così tanto da innalzarlo quasi a personaggio mitologico, finché non ho avuto la fortuna di incontrarlo e la stretta di mano e il paio di pacche sulla spalla che gli ho dato l’hanno riportato sulla Terra. Lui nel frattempo aveva edulcorato il suo livore e realizzato dischi luminosi. Ed io ho percorso chilometri immaginando come tappeto sonoro le melodie malefiche di “Stranger than kindness” e “The wheeping song”. E ora non posso fare a meno di consigliare con tutto il cuore questo triplo cd di rarità: credetemi, se stavate aspettando la scusa buona per rompere il salvadanaio, non ne troverete facilmente una migliore di questa. Nick Cave raccoglie 56 canzoni sparse negli anni tra compilation e singoli vari. Si va da “The moon is in the gutter”, lato B del primo singolo targato Bad Seeds (“In the ghetto”, 1984) alle cover di Neil Young (“Helpless”) e Leonard Cohen (“Tower of song”), dai divertissement di “That’s what jazz is to me” e “Right now I’m a-roaming” all’ormai introvabile duetto col compagno di sbronze Shane MacGowan (“What a wonderful world”, 1992). “B-Sides & Rarities” ripercorre la carriera dei Bad Seeds per intera, passa attraverso le collaborazioni col regista Wim Wenders (“I’ll love you till the end of the world”, 1991), il periodo delle ballate assassine (“The ballad of Robert Moore and Betty Coltrane”, 1995) e la felicità creativa che ha portato alla pubblicazione, lo scorso anno, del bellissimo doppio “Abattoir blues/The lyre of Orpheus” (“Under this moon”, 2004). Confezione scarna, nessuna nota celebrativa, soltanto il rigoroso bianco e nero di titoli e crediti, imperdibile.
“Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus”
In quel lungo cammino attraverso il fuoco che è la discografia di Nick Cave mancava un’opera come “Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus”, un doppio album che racchiudesse le tante anime dell’artista australiano. I blues infernali, le canzoni d’amore struggenti, gli agonizzanti inni biblici e le ballate assassine. 17 canzoni, un’ora e mezza di musica: “Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus” è per Nick Cave quello che “The River” è stato per Bruce Springsteen, un’immersione ubriacante nella sua musica, al termine della quale hai l’impressione di esserti arricchito non poco. Cave continua a mettere una parola dietro l’altra con un’autorità che non ha eguali nella canzone d’autore contemporanea e la sua voce rende solenne anche un’inedita folk-song bucolica e sbarazzina (“Breathless”). Magari non c’è più la voglia di mettersi a nudo che ci fece amare “The Boatman’s Call” e nemmeno il misticismo meraviglioso di “No More Shall We Part”. Manca la forza disperata di “Tender Prey” e mancano anche le massicce dosi di humor nero che fecero la fortuna di “Murder Ballads”. La bellezza di quegli apici non viene qui raggiunta. Eppure in "Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus" ci sono dei pezzi senza i quali il canzoniere del Re Inchiostro sarebbe stato più povero. “Hiding All Away” innanzitutto: un selvatico blues in cui i Bad Seeds paiono divertirsi come ragazzini; e poi “There She Goes, My Beautiful World”, un’irresistibile satira sul blocco dello scrittore che tira in ballo Willmot, Nabokov, Karl Marx, Larkin, Dylan Thomas, e sputa in faccia alla musa ispiratrice un "I look at you and you look at me and deep in our hearts know it, that you weren’t much of a muse, but I weren’t much of a poet”; “Nature Boy”, un inno rock alla maniera di David Bowie che riafferma il valore arcano della bellezza in un mondo che sembra averlo perduto in nome dell’atrocità e del nichilismo; “Supernaturally”, una canzone d’amore travestita da carnevale, chiasso e poesia rimescolati secondo la miglior ricetta di casa Cave; la conclusiva “O Children”, una delle più belle canzoni sentite di recente, arricchita dal London Community Gospel Choir, che rappresenta una delle due novità del doppio album insieme alla chitarra acustica che fa capolino di tanto in tanto. “Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus” è il disco ideale per chi non è stato ancora infettato dalla Cave-mania e vorrebbe vedere che effetto fa. Certo non si tratta di operazione indolore. Neofita sei avvertito: Cave penetra le tue viscere e si ubriaca bevendo vino dal tuo cuore, disintegra le tue ossa e fuma la cenere come aperitivo. “If you’re gonna dine with the cannicals, sooner or later, darling, you’ve gonna get eaten” avverte in “Cannibal’s Hymn”, ed è proprio così. Se si è giù di corda, Cave ti da il colpo di grazia. Se si è felici, ti ricorda di non ridere troppo, ché l’apocalisse è sempre dietro l’angolo. Nick Cave è l’ultimo dei poeti maledetti, un esteta del male così come lo sono stati Poe e Baudelaire, Celine e Lou Reed.
"Nocturama"
Nick Cave ha trovato la sua via alla leggerezza. Arrivato dopo tre album-capolavoro ("Murder Ballads", "The Boatman's Call", "No More Shall We Part"), intensi ma sofferti fino all'autolesionismo, "Nocturama" è un disco trasversale, "minore" se vogliamo, dove i momenti di luce superano, per una volta, quelli di buio. Cave l'ha scritto di getto, spesso improvvisando i testi in sala d'incisione e lasciando maggior spazio alla band. Il risultato ha dell'incredibile: le dieci canzoni di "Nocturama" svolgono la loro melodia in modo semplice e naturale; si accalcano al traguardo della notte, in quei minuti che precedono l'alba, quando la natura sta per svegliarsi, e con essa la vita; aspirano alla primavera del cuore. Pain, loss, sorrow sono parole che Cave frequenta con sempre minore assiduità. Disintossicato dal dolore, l'artista australiano sembra essere tornato ad una primordiale condizione di purezza che lo rende capace di stupirsi di fronte ad un fiore appena sbocciato o ad una silenziosa nevicata. Sarà un miracolo ma "Rock Of Gibraltar" è una light song in piena regola ed è proprio il re delle tenebre che canta "the sea would crash about us, the waves would lash about us, I'll be your Rock of Gibraltar". Sarà che sono rimaste preziose gocce dell'amore che si credeva irrimediabilmente perduto ("I say to the sleepy summer rain, with a complete absence of pain, you might think I'm crazy, but I'm still in love with you"), ma ogni cosa sembra dar forma a un sentimento di rinascita, ad un'inedita voglia d'ottimismo ("come on, admit it babe, it's a wonderful life"). C'è un germoglio in ognuna di queste canzoni, un germoglio accarezzato dal sole che racchiude una meraviglia, un bacio, un fiore. Il buio è rimasto nell'irresistibile "Dead Man In My Bed", dove i Bad Seeds sfogano la loro insalubre scelleratezza, e in quel titolo, "Nocturama" (come l'area degli zoo dove sono gli animali notturni), che suona come uno scherzo, messo lì, sotto la copertina più candida che Nick Cave ci abbia mai offerto.
"No more shall we part"
Partiamo da una considerazione: come ha scritto Signe Glahn "Nick Cave è molto più in salute adesso, che ha 43 anni, di qualche tempo fa, quando sembrava un'appendice delle sue occhiaie". Ovvio che anche la musica ne risenta. Esorcizzati gli spettri di una vita dissoluta e messosi definitivamente al riparo da una spirale autodistruttiva che lo stava rapidamente trasformando in un martire delle sue angosce, Cave realizza un album morbido e luminoso. Dolce. Pervaso di misticismo: grande studioso della Bibbia e profondo conoscitore dell'immaginario religioso, Cave parla di e con Dio in almeno la metà dei brani. E smessi i panni del cantore dei pazzi e dei violenti, costruisce il suo nuovo disco attorno ai temi del senso di sicurezza e del bisogno di protezione. E' naturale rivolgersi a quelli che ci sono vicini, che prima erano visti solo come persone con le quali non era possibile entrare in contatto, per chiedere aiuto e protezione, ora che nel cielo è tornato il sereno. Adesso che persino i Nemici non fanno più paura se "the dogs you say they fed you to / lay their muzzles in your lap / and the lions that they led you to / lie down and take a nap". Da questo punto di vista c'è un brano, "Hallelujah", che può essere considerato il centro dell'album. E' la storia di un uomo che rinuncia a rischiare tutto, pur di fronte a tentazioni ammaliatrici, e decide di tornare sui suoi passi gettando al vento qualsiasi desiderio d'avventura. All'uomo servono solo venti grossi secchi per raccogliere le proprie lacrime, venti belle ragazze per trasportarle e venti buche profonde per sotterrarle. La quiete dopo la tempesta? Sembrerebbe di sì, anche se non si può pretendere che i fantasmi che ci hanno posseduto per tanto tempo siano spariti del tutto. E il panico riesplode puro in "Oh my Lord", dove Cave ricorda di essere il più bell'esempio vivente di poeta maudit e canta: "Be mindful of the prayers you send / pray hard but pray with care / for the tears that you are crying now / are just your answered prayers". E se pure la Fede vacilla, non resta che l'Amore ad offrire l'ultimo approdo per avere sicurezza e protezione. Amore totale, folle. Amore che vale la pena di essere vissuto, anche quando finisce e lascia soltanto un ricordo fatuo come il fumo di una pistola ("You were my lover / you were my friend / there never was no other / on whom I could depend"). Amore forse non definibile, di certo non teorizzabile: che sia proprio tale negazione, che castra ogni possibilità di appagamento, a contendere Cave, e noi con lui, tra Bene e Male, tra Santità e Dannazione? Disco dell'anno, Amen.
“The Boatman’s Call”
Questo è il capolavoro col quale Cave raggiunge e supera, in una volta sola, il suo maestro Leonard Cohen. “The Boatman’s Call” è il punto di non ritorno del romanticismo in musica, d’ora in poi chiunque voglia scrivere canzoni d’amore dovrà fare i conti con questo album realizzato da un artista, pur nella lacerazione più intollerabile, guidato da un irripetibile stato di grazia. “The Boatman’s Call” è uno dei rari esempi in cui la perfezione formale si incastra magicamente con il disordine dei sentimenti e diventa Arte con la maiuscola. Che Nick Cave pubblichi questo disco a breve distanza dall’originalissimo “Murder Ballads” non è e non può essere un caso. I due album rappresentano magnificamente i due poli della statura artistica di Cave: laddove “Murder Ballads” è innanzitutto opera narrativa, in cui l’australiano si dimostra straordinario interprete oltre che autore di smisurato talento, “The Boatman’s Call”, con la sua audace vivisezione dell’anima, ne è il naturale opposto e complemento. Se “Murder Ballads” è fascinosa messa in scena, “The Boatman’s Call” è sincerità di una forza tale che ci si sente un po’ voyeur nell’entrarci dentro. Ci si avvicina al disco sapendo già di scottarsi, ma l’intensità dell’ustione non è prevedibile e se, niente di più facile, si riesce ad identificarsi con una delle dodici storie qui contenute, sentendo che in fondo Cave parlando di sé parla anche un po’ di noi, l’annientamento è totale. Dodici ballate nude, scarne, fatte di dolci trame di pianoforte su cui si innestano con grande delicatezza un basso, un violino, un hammond e una batteria jazzy. “Into My Arms” è una preghiera di dolcezza commovente, “People Ain’t No Good” è un filmino in bianco e nero di un matrimonio fallito con uno dei ponti più belli e strazianti che possa capitare di ascoltare (“al nostro amore mandano dodici gigli bianchi, al nostro amore mandano una bara di legno”). Vivamente sconsigliato immergersi nel dolore di “Where Do We Go Now But Nowhere” se non si è provvisti di un autocontrollo a prova di bomba, dentro la sua storia troverete una tristezza capace di far piangere anche le pietre (“se potessi rivivere un giorno della mia vita, se ne potessi rivivere uno soltanto, tu sul balcone, la mia futura moglie, chi poteva prevederlo, nessuno”). Ascoltando “Black Hair” (per P.J.Harvey?) si fa fatica a credere che un uomo possa essere spudorato in maniera così imprudente: il pezzo è, nella sua nudità, di una bellezza indescrivibile (“tutte le mie lacrime versate sulla sua gola bianca come il latte, nascoste dalla tendina dei suoi capelli neri”). “Idiot Prayer” contiene tutte le parole che avremmo voluto dire in quel determinato momento della nostra vita, un intero canto di commiato o di arrivederci. Tra ispirazione religiosa (“Into My Arms”, “Brompton Oratory”, “There Is A Kingdom”), ingenue e tenere attese (“Are You The One That I’ve Been Waiting For?”, “Into My Arms”) e finali crudeli (“Far From Me”, “People Ain’t No Good”), “The Boatman’s Call” è la summa dell’arte di Nick Cave e della canzone d’autore tutta. Tra vent’anni si parlerà ancora di questo disco come di un capolavoro assoluto e imprescindibile.
“Murder Ballads”
Spesso la morte, la violenza, l’omicidio, nel loro orrore, riescono a sedurci, ad incantarci con un fascino perverso, e noi, folli umani, lasciamo che il nostro animo segua quella morbosa curiosità nei confronti dell’irrazionale e dell’orrido. Come possiamo non rimanere affascinati, allora, da una raccolta di ballate che con agghiacciante poesia percorre i labirinti nascosti delle menti di disperati assassini, che si muovono disorientati in una società caotica e confusa? Nick Cave entra in questo inferno e con la consueta voce spettrale ci presenta i suoi personaggi: da Stagger Lee a Mary Bellows, passando per Elisa Day, vittima di un killer in bilico tra il bene e il male, tra l’amore e l’odio. Si passa da momenti di disperazione ad altri di autentica follia (“…the young ones, the old ones, they all gotta die…”) e poi paura, delirio, autodistruzione. Scenari malsani riempiti da uomini che hanno venduto la loro anima al subdolo demone della furia omicida. Nick è inquietante anche quando duetta con una voce come quella di Kylie Minogue. Il nostro Nick, infatti, non è solo. Ha portato con sé nell’inferno, oltre ai Bad Seeds, anche ospiti eccezionali come P.J. Harvey, il vecchio amico Shane MacGowan e la già citata Minogue. Contribuiscono anche loro a distorcere la visione della realtà e a creare quell’atmosfera decadente percepibile già dai disegni del booklet. E’ la veste narrativa e letteraria che, ancora una volta, la fa da padrona in questo disco, a sottolineare la straordinaria creatività di Nick, che non per niente ha anche pubblicato in passato un romanzo e la raccolta di poesie “King Ink”; in questa ottica non si può non gridare al capolavoro di fronte ad un brano come “O’Malley’s Bar”, ben quindici minuti per quaranta versi, composto nel ’93 e punto fondamentale attorno a cui è stato concepito l’intero album. Il disco è chiuso magistralmente da una versione corale di “Death Is Not The End” di Dylan, ironicamente posta a sigillo di un’opera quasi perfetta. E’ la stessa ironia che pervade tutte le dieci tracce ed è la stessa ironia che fa del delitto la più bella delle arti e di Nick Cave il suo più buio narratore. (da Musica! di Repubblica, 1996)
I Bad Seeds oltre i Bad Seeds
Tutti i membri dei Bad Seeds hanno carriere parallele, più o meno note al pubblico rock. Se gli Einstuerzende Neubauten di Blixa Bargeld (chitarrista dei Bad Seeds da “From Her To Eternity” a “Nocturama”) e i Dirty Three di Warren Ellis (protagonista assoluto, col suo violino, degli album “cantautoriali” di Cave) sono conosciuti da ogni appassionato che si rispetti e su di loro non occorre soffermarsi, maggiore attenzione intendiamo dare a quei dischi che, per vari motivi, possono essere passati inosservati e che invece, viste le qualità “caveiane”, vanno a nostro parere recuperati. Di Hugo Race, presente al fianco di Cave solo in “From Her To Eternity” e poi partito per una carriera solista che a tutt’oggi ha prodotto una decina di album, è consigliato l’ascolto della doppia antologia “Long Time Ago” e di “The Goldstreet Sessions”, il disco del 2003 contenente gemme come “Makes Me Mean” e “LSD Is Dead”. Del batterista tedesco Thomas Wydler (nei Bad Seeds dal 1986 in poi) e dei suoi Die Haut, nome di spicco della scena berlinese degli anni Ottanta e spalla dei Birthday Party, è stato di recente ristampato il vecchio “Burnin’ The Ice”, in cui Nick Cave compare come ospite. Del bassista australiano Martyn P. Casey (in organico da “Henry’s Dream” in poi) e dei suoi Triffids si recuperi “Born Sandy Devotional”, mentre dell’ultimo arrivato, James Johnston dei Gallon Drunk, gli album più preziosi sono probabilmente “You, The Night… And The Music”, contenente un grande pezzo come “The Tornado”, e “In The Long Still Night”. Un discorso a parte merita Mick Harvey, collaboratore di Nick Cave da sempre, produttore, arrangiatore, abile con chitarra, basso, tastiere, batteria, nonché capace di tirare avanti la baracca nei momenti peggiori della tossicodipendenza di Cave; oltre che come membro degli immensi Crime & The City Solution, dei quali, oltre a mini LP e dischi live, rimangono quattro album superbi (“Room of Lights”, “Shine”, “The Bride Ship” e “Paradise Discotheque”), Harvey è ricordato anche per i due bei dischi di cover del mito francese Serge Gainsbourg, “Intoxicated Man” e “Pink Elephants”, usciti a metà degli anni Novanta. Attualmente i Bad Seeds sono: Mick Harvey (chitarre); Martyn P. Casey (basso); Conway Savage (tastiere); Thomas Wydler (batteria); Jim Sclavunos (batteria); Warren Ellis (violino, mandolino); James Johnston (chitarra, organo).
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