Cesare Cremonini @ Teatro Medievale delle Fonti, Ripatransone - 25.06.09
di Urso Alex Dopo due mesi lontano dal mio paesino, torno. Il mio paesino che sarebbe una cozzaglia di mattoni medievali persi tra le colline di un panorama che diresti quanto meno suggestivo; il mio paesino, che sarebbe il fortunato possessore del vicolo più stretto del mondo, ché si fanno cause in tribunale con altri paesini che si contendono a loro volta il primato ma il mio paesino vince sempre; il mio paesino, che in questo vicolo alla fine ci pisciano pure le mosche; il mio paesino, che in questo vicolo ci si fotografano tutti, chiedendosi se in quei quarantatre centimetri di larghezza ci passeranno di culo oppure laterali, contorcendosi e strusciando perché no la faccia sui mattoni, proprio quelli inzuppati di piscio dalle mosche ubriache la domenica mattina.Dopo due mesi insomma torno al mio paesino, con tutti i convenevoli del ritorno: io con la barba che sembro un eremita, io che sono dimagrito che lo studio allenta, io che basta che sei felice tu puoi andartene pure a New York. Al mio paesino non capita spesso di vedere gente famosa. Così il fatto che venga Cremonini mette quanto meno curiosità. Logico che vada. Cesare parte da Ripatransone per realizzare questo “Secondo tour sulla luna”, una riproposta estiva del primo fortunato tour relativo all’album “Il primo bacio sulla luna” (2008). È la tappa zero; e questo vuol dire una settimana di prove, di sound-jack alla grancassa che quando Cesare se ne andrà le vecchie del paesino si raduneranno in qualche rave a brindare con sciroppo alla menta. Arrivato al Teatro delle Fonti, una cornice all’aperto stupenda inzuppata nel verde e nelle luci dei neon, vedo subito che la gente non è molta, o per lo meno non quanta un palcoscenico simile meriterebbe: quintali di ferraglia incastonata a creare veramente un’ambientazione per certi punti di vista lunatica. Cesare entra, e subito mi immagino un uomo nuovo. Il punto è scrollarsi di dosso quella Vespa, come se poi fosse un relitto per la musica italiana. Quando nel novantanove mia sorella si fece regalare “…Squérez?” da Babbo Natale aveva nove anni. Lo fece per una specie di confronto con me, che in quell’anno avevo spento dodici candeline, e richiesi al simpatico barbuto “Californication”. Ovvio che la storia diede ragione a me, ma non nascondo che alla fine sentii più volte “…Squérez?” io che mia sorella, che della musica a nove anni non glie ne fregava una sega. Bene. Il punto è scrollarsi di dosso quella Vespa. Ma anche no. Le canzoni sul palco volano tra vecchie e nuove, con una carica ed una maturità professionale che i ciarlatani italiani si rimangerebbero la lingua. E non in una sola di queste canzoni che Cremonini lasci intravedere un ché di imbarazzo ad affrontare pagine vecchie della sua carriera: pezzi come “Vorrei”, “Un giorno migliore” o “Qualcosa di grande”, sono gridati con la professionalità di chi sa far notare la differenza di spessore che manca in Italia: la distinzione tra chi nella musica è furbo, e chi nella musica cerca un percorso personale, condivisibile o meno ma pur sempre evolutivo. “50 Special” poi si presenta bella, ristrutturata, rimessa a lucido; altro che chiusa in garage: Cremonini è intelligente, è sorridente, non rinnega affatto quello che ha fatto, e perché dovrebbe?! La canzone tra l’altro suona fresca, e comunque molto meno ridicola di moderni fantomatici tormentoni estivi. Che cantino pure le sbarbine, che cantino i trent’enni: qui ridono tutti, e Cremonini sembra veramente ispirato da una sorta di investitura messiaca: unisce, fa cantare giovani e meno giovani insieme. Quanti altri cantanti pop sanno coscientemente far questo oggi? Cremonini è sottovalutato. Ma lui se la ride. Sopra l’Italia si fumerà un altro joint in compagnia di Ballo, che non brilla ma lavora. Sul palco sono loro due affiancati da ben sei musicisti. Le canzoni vengono riproposte in chiave swing, blues, con stacchetti perfetti, divertenti, notevoli tecnicamente. Qui non si scherza. Cremonini fa l’eterno ragazzo, ma da sotto si vede benissimo la volontà di migliorarsi, un discorso ragionato di fondo. Il palco è una macchina che funziona a meraviglia tra luci e fumogeni; i ragazzi sono vestiti di nero, in stile Broadway, si molleggiano con dieci anni di esperienza, con capacità di intrattenere, di saper ridere, di non steccare. Cantano addirittura “Folsom Prison Blues” (Johnny Cash), si muovono per ogni centimetro del palco. Quando poi Cremonini và al piano capisci che non è l’ultimo sprovveduto, non è uno che macina soldini dietro un pubblico di soli brufolosi. Di giovani brufolosi, tra l’altro, al suo concerto ce ne sono molti meno di quelli che ti aspetti. E ancora “Dicono di me”, “Maggese”, “Marmellata #25”. Che sono pezzi coinvolgenti, che non ti faranno strappare i capelli, ma si chiama pop. E va bene così. “Padre madre” poi sembra tranquillamente poter esser cantata da tutti, superare per espressività, per intensità, per spessore artistico i pezzi storici del bolognese. Il punto è questo: la Vespa Cremonini l’ha superata da tempo, e non se ne vergogna e nemmeno se ne vanta. L’ha superata, perché ha saputo farlo, perché ha trent’anni e la gente a volte a quest’età capita che migliori, cambi, si rinnovi. Cremonini la Vespa l’ha superata abbondantemente, e forse è l’Italia sempre così perennemente attaccata ai suoi falsi miti, alla pochezza dei luoghi comuni ché alla fine la legge è sempre questa: nel paese dei vecchi niente cambia e niente scorre.
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