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"Gran Torino" (USA, 2008)

“Gran Torino” di Clint Eastwood

Duro e tagliente Eastwood con la sua scelta mor(t)ale inchioda il suo ultimo personaggio nella storia del cinema, e ce lo lascia disteso a terra, disarmato, crivellato di colpi nell’atto di accendersi una sigaretta. Duro e spietato accende una candela che retroattivamente illumina ingigantendolo il suo Walt Kowalski, uomo sulla via della fine, vedovo, sol(itari)o, malato, e pure razzista, violento, sprezzante, caustico fino alla deformazione.

La fine riabilita Walt Kowalski, e poi è davvero la fine o quell’andarsene nel nulla che lo accomuna in modo parallelo al Frankie Dunn di Million Dollar Baby. I due film, Gran Torino e Million Dollar Baby, messi l’uno di fianco all’altro, intopperebbero sugli stessi ostacoli, scivolerebbero sulle stesse discese e si dileguerebbero alle medesime fermate terminali, tanto sono simili: dal rapporto con la religione – impersonata dai due sacerdoti padre Horvak e padre Janovich – al linguaggio da uomini con l’amico Morgan Freeman e col barbiere John Carroll Lynch, magnificandosi poi nelle figure di Walt e Frankie, inizialmente di ghiaccio e pietra, più avanti capaci di riscatti fulgidi e, nello stesso momento, d’ombra.

Gran Torino, va detto, non eguaglia Million Dollar Baby, né tantomeno Mystic River, per citare un altro capolavoro crepuscolare dell’ultimo Eastwood, ma è più volte memorabile. Intanto nella Ford sportiva che gli dà il titolo, tanto bella e tirata a lucido quanto inutile, ferma, fossilizzata nel garage. E’ la stessa vita di Walt che è fossilizzata tra il garage e la veranda, in quella scatola di immobilità fatta di giornate sprecate a disprezzare il prossimo e a fare il pieno di lattine di birra e nicotina, con l’esclusiva compagnia della cagna Daisy. Poi c’è la conoscenza dell’altro, la partecipazione all’altro, l’emozione con l’altro. Poi c’è che lo squallore – di una vita, di tutte le vite, di un quartiere, di una nazione – viene squarciato da un lampo d’amore. Poi, si diceva, è davvero la fine. Clint Eastwood ha fatto del suo Walt testamento d’attore. D’ora in poi non reciterà più. Morto, il suo corpo feticcio, per mano del nemico più indegno, come dire che oggi è questa l’America e questa è la feccia che si merita. Morto, il suo corpo di cowboy, non per mano di uno stratega del crimine o di un killer scientificamente folle, non in guerra, non in duello, ma per mano di teppistelli privi di intelligenza e di savoir faire – la cellula cancerosa coltivata da un tempo in cui persino il crimine ha perso scaltrezza e smalto che in altre epoche lo avevano reso degno di fascino, degenerato anch’esso nel rincoglionimento generale.

Eastwood ha giustamente definito Gran Torino un guerrilla movie. La guerriglia che qui viene rappresentata è però di infimo respiro, perlomeno rispetto alle questioni morali che inconsciamente genera. E’ un modo di fare cinema, quello dell’ultimo Eastwood, davvero morale e definitivo – col suo personaggio tagliato con l’accetta, finanche caricaturale per i primi quaranta minuti, eppure così vicino ai moti più autentici dell’animo umano. Scritto da Nick Schenck e comprato da Eastwood lo scorso inverno, Gran Torino non è stato dunque pensato per Eastwood ma sembra pensato solo e soltanto per lui. Chi altro poteva interpretare un tipo così? Con le sue smorfie, le sue occhiatacce, il suo inimitabile modo di sputare, Eastwood fa suo Walt Kowalski senza che nessuno possa avere nulla da eccepire. E nelle due ore del film Walt Kowalski sputa proprio tanto e con tanto disprezzo che pare proprio dar ragione al buon Medina Reyes quando sostiene che nessuno sputa meglio del vecchio Clint.

 Pierluigi Lucadei

Recensioni

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