di Pierluigi Lucadei Ottavo film da regista per Sergio Rubini, “La terra” è la storia di Luigi (Fabrizio Bentivoglio), un professore di filosofia all’Università di Milano che torna in Puglia, nel suo paese d’origine, e si ritrova coinvolto nelle sporche atmosfere di un mondo che credeva di essersi lasciato per sempre alle spalle. Assieme ai fratelli Michele (Emilio Solfrizzi), aspirante politico, e Mario (Paolo Briguglia), giovane impegnato nel volontariato, Luigi cerca di convincere il fratellastro Aldo (Massimo Venturiello) a vendere un’azienda agricola di famiglia. Sullo sfondo la provincia meridionale più profonda che si possa immaginare, con tanto di scenografiche processioni per il Venerdì Santo, padri di famiglia violenti, usura, omertà, e piccoli boss che dettano legge. Uno di questi, il repellente Tonino (Sergio Rubini), si metterà contro i quattro fratelli e l’odio tra loro sfocerà nel sangue. Abbiamo incontrato Sergio Rubini, che torna alla regia a due anni di distanza da “L’amore ritorna”.
Nel film la cosa che colpisce di più è il cambiamento del protagonista, che da Milano ritorna nella terra d’origine e subisce a tal punto il richiamo di questa Italia torbida, violenta, rancorosa da uscirne trasformato. E’ giusto leggerci come una spaccatura tra due Italie?
Potrebbe essere una prospettiva interessante attraverso cui guardare il film. “La terra”, però, non vuole essere soltanto questo, non vuole limitarsi a raccontare la storia un uomo che va a nord e diventa un uomo del nord e poi torna sud e ridiventa uomo del sud. Con “La terra” ho voluto dire che non ci si può affrancare dal proprio marchio di appartenenza, che ad un certo punto della vita bisogna ricordare quello che si è stati. La memoria è una cosa importante, ognuno di noi è una stratificazione di memoria. Il protagonista, tornando a casa, finisce con l’entrare in un cono d’ombra, in un buio che non rappresenta altro che l’eredità della sua appartenenza. La stratificazione di memoria, in questo senso, non è un semplice accumulo, ma una realtà vivente.
Non deve essere stato facile scegliere il cast, tanti erano i ruoli interessanti e, allo stesso tempo, difficili da interpretare. Tu hai scelto subito di fare il cattivo?
Lo spunto da cui è nato questo film risale a molti anni fa, è da un sacco che penso a questa storia con quattro fratelli. Col tempo ho cambiato più volte idea riguardo al personaggio da interpretare anche se non ho mai pensato di prendermi il ruolo del protagonista. Ultimamente mi piace fare ruoli laterali nei miei film. E’ stato Procacci a suggerirmi di interpretare il cattivo. Io non ero molto convinto perché pensavo di non essere abbastanza pericoloso, di non avere un fisico troppo adatto per quel personaggio, che secondo me doveva ispirare qualcosa di malato e sgradevole. E’ per questo che ho introdotto alcuni elementi come i capelli sporchi, la forfora sulla giacca. Direi che è venuto bene. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare per il personaggio di Tonino?
No, a nessuno in particolare, però ricordo che quando ero bambino nel mio paese c’era un signore che portava il dolcevita ad ogni costo. Così mi è venuta l’idea della ferita sul collo che Tonino tiene sempre coperta col dolcevita.
Forse è una questione di temperamento, ma anche ne “La terra” come in tutti i tuoi film rischi di stare un po’ sopra le righe.
Accetto l’idea di essere a volte sopra le righe, soprattutto perché mi sforzo di non essere sotto. Io racconto i sentimenti, non mi piace la misura, non mi interessa la borghesia, amo chi sbaglia. Il personaggio di Michele è uno che vorrebbe essere borghese ma non lo è. E’ un po’ il miraggio di una borghesia che al sud non esiste. Se i personaggi fanno degli errori fa parte del loro essere e mi piacciono per questo. Nel film c’è un tessuto sociale forte. Alcune scene potrebbero essere state scritte da Sciascia.
Sì, hai ragione. A dire la verità, però, io ho pensato a Dostoevskij. Volevo che il film avesse l’impianto tipico del romanzo ottocentesco. Impossibile non pensare ai Fratelli Karamazov. Però ci possono essere molte altre affinità. Per esempio, io ho pensato anche al Padrino, visto che per certi versi il percorso di Luigi è un po’ anche il percorso di Michael Corleone. Si avverte una certa nostalgia per il cinema degli anni Cinquanta. Soprattutto la parte iniziale del film sembra avere dei rimandi ai thriller hitchcockiani. Sei d’accordo e, se sì, Merito anche della musica di Pino Donaggio?
E’ vero, ho pensato ad un thriller perché volevo che il ritorno del protagonista al paese d’origine fosse un ritorno ad alta tensione. All’inizio del film volevo che ci fosse come la premonizione di qualcosa di terribile. Come ti dicevo prima, il ritorno è un po’ un andare nel buio, così ho pensato al thriller e ho pensato che Donaggio fosse il musicista adatto. L’ho preso anche per fuggire la trappola della musica etnica, per capirci… era troppo facile mettere la tarantella. Il film ruota attorno ad un’azienda agricola di famiglia che viene venduta, praticamente quello che sta succedendo sempre di più in certe zone del sud. C’è nostalgia per questi posti della memoria che stanno scomparendo?
Il senso più profondo del film è che non sono le cose a rappresentare la memoria, bensì sono le persone a costruirsi una propria memoria. Il compito di Luigi è quello di unificare la famiglia con qualcosa di più intimo, non legato alle cose terrene. E’ vero che al sud si stanno vendendo tutte queste proprietà, soprattutto ad acquirenti stranieri, ma io non sono la persona adatta per dire qualcosa in proposito. Posso dire che mi dispiace per chi vende le terre, ma niente di più. Le cose terrene non sono in grado di unire le persone, semmai di dividerle, quindi non mi interessano. Visto che nel film, con i manifesti elettorali di Michele, ci sono degli accenni di politica, posso sapere da artista cosa ti aspetti dalle elezioni del 9 aprile? Credi che un governo diverso possa garantire una maggiore attenzione per il mondo del cinema e dello spettacolo?
A questo vorrei rispondere con una considerazione. Si sa che tutta la gente dello spettacolo è di sinistra e si sa anche che tutto l’impero di Berlusconi è fondato sullo spettacolo. E’ una cosa che dovrebbe fa riflettere.
“La terra”: un film di Sergio Rubini con Fabrizio Bentivoglio, Paolo Briguglia, Massimo Venturiello, Emilio Solfrizzi, Giovanna Di Rauso, Alisa Bystrova, Sergio Rubini e Claudia Gerini; fotografia di Fabio Cianchetti; montaggio di Giogiò Franchini; musiche di Pino Dosaggio; scenografia di Luca Gobbi; soggetto di Filippo Ascione e Sergio Rubini; sceneggiatura di Angelo Pasquini, Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini; prodotto da Domenico Procacci; regia di Sergio Rubini. Sergio Rubini: nato a Grumo (BA) il 21 dicembre 1959; attore in Intervista (Fellini, 1987), Il Grande Black (Piccioni, 1987), Mortacci (Citti, 1989), Al lupo, al lupo (Verdone, 1991), Una pura formalità (Tornatore, 1993), Nirvana (Salvatores, 1996), L’albero delle pere (Archibugi, 1997), Del perduto amore (Placido, 1997), The Talented Mr.Ripley (Minghella, 1999), Denti (Salvatores, 2000), Amnesia (Salvatores, 2000), La forza del passato (Gay, 2002), Mio cognato (Piva, 2003), Manuale d’amore (Veronesi, 2004); attore e regista in La stazione (1990), La bionda (1992), Prestazione straordinaria (1994), Il viaggio della sposa (1997), Tutto l’amore che c’è (2000), L’anima gemella (2003), L’amore ritorna (2004), La terra (2006).
in Vetrina – venerdì 24 febbraio 2006, ore 12.02