Intervista
Perché”In cinque mosse”?
Il motivo del titolo di per sé è abbastanza banale: le “mosse” sono le cinque canzoni e le cinque basi musicali che nel CD propongo. Inizialmente, quando ho cercato l’incontro con i Malinda Mai, i Maestri Antonello Manca e Fabrizio Meli, confesso che ero totalmente a digiuno di cosa significasse lavorare con dei musicisti professionisti e cosa comporta fare un CD. Ero abituato a suonare con altri “in amicizia”, un po’ alla “vulemose bene” e sugli errori, sui fuori tempo, sulle sfasature si sorrideva “perdonando”…
Spiegati meglio.
Allora, con Antonello e Fabrizio “”suonicchiare” non esiste: l’amicizia è un conto e può essere abbondante, l’esecuzione “matematicamente umana” di una partitura è altro. Non sono ammesse sfasature. Fin dal primo giorno di prove, ho visto questo rigore. Oggi so che se così non fosse i Malinda Mai non sarebbero un’Orchestra, bensì un complessino. Antonello e Fabrizio sono veramente dei professionisti; con un orecchio così fine, da capire al volo – tra una prova e l’altra - se i musicisti hanno o no riprovato a casa, da soli, la partitura che gli è stata assegnata. E’ questo rigore la loro forza e la garanzia dell’esecuzione in orchestra.
In cinque mosse nasce quindi con queste circostanze: incidere un disco nella filosofia dei Malinda non è “tanto pè suonà”.
Il mio progetto iniziale prevedeva dodici-tredici canzoni. Non sapevo quanto lavoro e quanto rigore (se si vuole dare un prodotto degno dei nostri nomi e delle vostre orecchie) ci sia dietro. Fare un disco con tredici canzoni significava lavorare almeno tre anni. Troppi per me e troppi per i Malinda Mai. Senza parlare dei costi oggettivi per le mie tasche (proibitivi). Ho quindi ridimensionato il progetto iniziale ed ho ripiegato per “cinque mosse”. Ma, sia ben chiaro, non è un “prodotto di ripiego”; sono fiero del lavoro che abbiamo fatto: le canzoni che ho inserito nel progetto le amo: Certo, mi dispiace per quelle che sono rimaste fuori, però le canto nei concerti e non è detto che, un domani, finiscano anch’esse incise. Molto dipende anche da che accoglienza avrà “in cinque mosse”.
Le cinque canzoni seguono un filo logico o sono, diciamo “slegate tra loro”?
I temi che canto hanno un loro filo logico, le lega anzitutto il mio modo personale di “leggere la vita”. La canzone sui campi di sterminio nazisti si scosta dalle altre perché lì mi sono voluto immedesimare in un qualunque internato, anche se - nella foto - sul braccio, è segnato il numero 300860. E’ la mia data di nascita: rivendico quindi un tempo mio, un’identità, un “io-persona” che dice no alla barbarie della violenza, soprattutto quella che può arrivarci addosso da un potere costituito, anche se poi, nella foto, quel braccio penzola sfinito tra i rami spinosi di una rosa. E’ il braccio di un uomo vinto nel corpo ma che io voglio non vinto nel suo spirito. Non è facile, ma si può (e se necessario, si deve) - e tanti l’hanno fatto - morire dicendo NO AI POTERI. E ciò che dico – che può sembrare un invito all’anarchia pura - è nel Vangelo: “Non temete chi uccide il corpo; temete piuttosto chi ha il potere di uccidere sia l’anima che il corpo: costui dovete temere”. Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) è l'insulto, la sconcertante menzogna che campeggia all'ingresso di tanti campi di sterminio, compreso Auschwitz, campo di concentramento e sterminio nazista oggi in territorio polacco, non lontano da Cracovia. Ci sono stato per ben tre volte. PER NON DIMENTICARE. La prima volta sono stato così male che ho finito per vomitare, la seconda volta ho scritto una "poesia", la terza, mentre rientravo in Italia, preso da alcune intuizioni (che sono finite poi nel testo della canzone), non avendo carta ho preso appunti su uno di quei sacchetti in dotazione sugli aerei in caso di “malori”. Involontariamente si è chiuso il cerchio così come si era aperto. Auschwitz mi ha sconvolto perché le fondamenta della civiltà, l’Ingegneria, la Chimica, la Medicina, perfino la Musica sono state usate per umiliare e uccidere. “Arbeit macht frei” lo voluta “valzer popolare” proprio per questo: ad Auschwitz c’era un’orchestrina di internati che accoglieva i prigionieri: un ignobile presa in giro, un gesto sadico, una vera barbarie, atrocità con tanto di “colonna sonora”…
“Prigioniera”: esiste veramente?
“Prigioniera” è l’icona di tutte le persone sole che vivono nel rimpianto di ciò che hanno perso – soprattutto a livello di affetti - e che hanno un rapporto dolente con la loro vita attuale. Da quando sono sacerdote ho incontrato decine e decine di “prigioniere” e di “prigionieri”. Sono persone estremamente sensibili: Una sensibilità che si è trasformata in fragilità e quindi, per usare una terminologia medica, in un “deficit immunitario” incapace di fronteggiare gli attacchi “virali” della vita di tutti i giorni. Sia chiaro: vivere non è facile, soprattutto quando non hai il salvagente degli affetti, il sostegno che ti viene dagli altri. Siamo ontologicamente creati per stare in relazione con gli altri: quando questo viene a mancare - o si spezza - non è difficile diventare un “prigioniera”. Soltanto la fede, una fede autentica - non la religiosità - può creare le condizioni per una vita solitaria, per il “monos” l’ ”uno”, il monaco. Per questo la Chiesa riconosce la vocazione del “solo che sta con Dio”, il monaco. Niente a che vedere con chi è vittima della solitudine, di chi subisce l’indifferenza degli altri, con chi si difende o ha paura di avere rapporti con gli altri. Nonostante tutto le persone “ferite” sono quelle che mi offrono più possibilità di capire la vita, la loro, la mia, quella di tutti noi. In sintesi: i “prigioniera” anche se indossano la maschera è evidentemente sottile ed è più facile incontrarli veramente.
Tharros?
Quella canzone è un viaggio nella memoria. Sono nato a Cabras, uno dei pochi paesi della Sardegna che ha con il mare e le lagune la propria storia segnata, intrecciata. Il mare quindi, con le sue possibilità. Sul mare sorgeva Tharros, antica città punico-fenicia poi romana. Tharros è i suoi commerci: il suo oro, le porpore, l'ambra importata dal Baltico. Tharros era lontana dai grandi centri di cultura e per ciò stesso è stata influenzata con eguale intensità dalle principali correnti del Mediterraneo.
Tharros è i suoi gioielli splendidi, lavoro e fantasia. Purtroppo tante cose sono andate perdute per sempre e molto è ancora sotto la sabbia. Tharros è il suo immaginario fantastico, madre e custode, nella sua necropoli del IV sec. a.C., del Bes stetocefalo sardo, i cosiddetti "Grilli"; inquietante sintesi di teste umane ed animali, tema espressivo imparentato con la mitologia scito-iranica. Purtroppo i “Grilli” sono… spariti! Sono riuscito a trovare soltanto dei disegni sul libro del lituano Jurgis Baltrusaitis (Il medioevo fantastico. Ed Adelphi). Infine, Tharros che lentamente muore, ingoiata dal mare e dalla sabbia, come una Venezia ante litteram. Tharros, è la madre di Cabras e di Oristano. Tharros, “sono io, sei tu, siamo noi; è la ruggine del nostro coraggio”.
E per finire arriviamo a Telemaco e Ulisse.
Ho sempre amato l’Iliade e l’Odissea e mi ritengo fortunato a riguardo per tre cose: la prima è che gli anni sessanta abbondavano di films cosiddetti “storici”, Ben Hur del 1959 con Chalton Heston, la Tunica, Maciste, il Colosso di Rodi di Sergio Leone, Ulisse, anno 1954, interpretato da Kirk Douglas di Mario Camerini, Spartacus di Stanley Kubrick del 1961 sempre con Kirk Douglas… il secondo motivo è che mio nonno aveva L’Iliade, l’Odissea e l’Eneide ed aveva la passione a la pazienza di leggermi le vicende degli eroi, di quel mondo fantastico fatto di grandi figure, grandi scelte, grandi battaglie, eroi e dèi schierati, prodigi e incantesimi, grandi amicizie, amore e morte… ci sono cresciuto su quelle storie ed appena ho imparato a leggere (la terza fortuna!) potevo finalmente avventurarmi da solo in quelle pagine, nascondermi anch’io nel ventre del cavallo di legno o accecare la forza bruta di Polifemo… piangere per la morte di Eurialo e Niso, amare Achille ma non perdonargli la crudeltà bestiale nel confronti del cadavere di Ettore, sentire un’immensa pena per Priamo che si umilia per riavere indietro le spoglie del figlio, ansimare insieme a Enea che fugge da Troia in fiamme… Quando nel 1968 la televisione mandò in onda l’ormai leggendaria Odissea di Franco Rossi, tutti quei personaggi ce li avevo dentro come parenti. Come dimenticare Irene Papas nel ruolo di Penelope?
Una delle prime canzoni che ho scritto è proprio Penelope (che purtroppo non ho inserito nel CD ma che, se “In cinque mosse” andrà bene, sarà la prima canzone che registreremo nell’eventualità di un altro CD).
Con Telemaco ho tentato di addentrarmi nel rapporto padre-figlio che è obbligatoriamente mediato dalla madre. Ho immaginato il loro rapporto stabile pur nella sofferenza di quest’assenza che pesa: di Ulisse non si sa nulla e sia Penelope che Telemaco hanno un estremo bisogno di lui. Telemaco sente fragilità e vorrebbe tanto trovare sostegno nel padre che non ha… con Antonello abbiamo deciso di esprimere anche musicalmente quattro stati d’animo: un tempo libero e dolente che fa da prologo e da epilogo, il Sirtaki scritto interamente da Antonello che è elogio e riconoscimento alla Grecia per tutto ciò che ha donato al mondo, un tempo di nostalgia e quasi-rancore nel cantato “Ho un padre raccontato…” che tra noi chiamiamo “a passo d’asinello” e poi il Valzer che è la vita che sarà ma non si riesce a scegliere quale.
Ulisse invece è una classica ballata con reminiscenze country-irlandese, è un po’ un omaggio all’Irlanda: ho abitato per un anno intero con quaranta irlandesi ed erano praticamente tutti cantanti e musicisti: abbiamo scambiato molto in quell’anno.
Ulisse è l’inquieto, l’uomo che non si accontenta di ciò che ha già raggiunto perché sa che oltre il capito ed il visto c’è altro da vedere, da scoprire, da conoscere. E’ ambizioso nella volontà di capire, non gli interessa possedere le cose in modo materiale, lui “cerca l’anima delle cose” anche se sa che il limite della sua umanità lo fermerà davanti alle “colonne d’Ercole”… Sa che la giovinezza conosce la morte “per sentito dire” e questa è la sua volontà di forza – che rasenta il blasfemo – “sfidare dèi o ciclopi è un guizzo giovanile”. Purtroppo in tutto questo c’è poco spazio per Telemaco e Penelope: è troppo poca la nostalgia di loro, fragile lo slancio del desiderio, forte l’incapacità di vivere come tutti gli altri “legati ad un solo orizzonte”, “un’esistenza tutta cucita in quei pochi passi”.
Ulisse conosce l’odore della terra, ma “nei polmoni ha l’odore grasso della sua nave”. Questo Penelope lo sa bene, per questo, quando s’interroga sulla vita di Telemaco canta: sarai “come Ulisse rapito dal mondo, mai sazio di spazi, di gente?”.
Per contattare Don Francesco: francescomurana@tiscali.it
Chi è Don Francesco
Francesco Murana nasce a Cabras, il 30 agosto del 1960 da Anna Maria e Antonino, primo di quattro figli: Francesco, Elisabetta, Andrea ed Alessandro. Il padre era Maresciallo degli Agenti di Custodia e per questo motivo Francesco i primi anni di vita li trascorre nelle cosiddette “Colonie Penali”; istituti di pena del Ministero di Grazia e Giustizia che offrono ai detenuti la possibilità di occuparsi in lavori agricoli, pastorali, manutenzione e servizio. Frequenta le Scuole Medie a Cabras e si iscrive all’Istituto Magistrale di Oristano.
Nel 1975, per il trasferimento del padre, si trasferisce a Patti (Me). Frequenta la Parrocchia di S. Nicola da Bari, a quel tempo tenuta dagli Oblati di Maria Immacolata (OMI). Inizia lì un percorso di ricerca vocazionale che a settembre del 1978 lo porta a Marino Laziale, presso il Centro Giovanile tenuto dagli OMI. Frequenta la Pontificia Università Lateranense (PUL). Ad ottobre del 1978, per una distorsione alla caviglia finisce in clinica e lì incontra un vecchio profugo lituano: Lorenzo Ringievicius. Sarà un incontro fondamentale. Uscito dal Centro e dovendo assolvere agli obblighi di leva, nel 1980 si arruola negli Agenti di Custodia e presta servizio presso il Nuovo complesso del Carcere di Rebibbia sempre iscritto alla PUL e sostenendo gli esami. Incontra in questo periodo Mons. Vincas Mincevicius, Direttore della Comunità Lituana in Italia e Mons. John Magee, che in quegli anni è secondo segretario di Papa Giovanni Paolo II. Negli otto anni “di Roma” saranno loro i punti di riferimento. Nel gennaio 1981 torna al Centro Giovanile OMI di Marino ma il 2 giugno 1981 esce definitivamente. Ha chiara una sola cosa: la chiamata al Sacerdozio. A settembre del 1982 è accolto nel Seminario Romano Maggiore a Roma e frequenta la Pontificia Università Lateranense. Nel 1984 si trasferisce al Collegio Irlandese (sempre a Roma) e, nel 1985, il suo Vescovo, Mons. Francesco Spanedda, lo manda al Collegio Leoniano. Finiti gli studi, torna in Sardegna: a settembre del 1986 viene ordinato Diacono ed il 14 marzo 1987 è ordinato Sacerdote, a Cabras, dall’Arcivescovo Mons. Piergiuliano Tiddia. Il 10 settembre del 1988 è nominato Parroco di Austis (Nu); al quarto anno è parroco anche di Tiana. Viene trasferito a Belvì e Gadoni (Barbagia), dove starà per due anni (1993 – 1995). Il primo settembre 1995 è nominato parroco di Sorradile e Bidonì (Or). Nel settembre del 2000 è nominato Parroco di Milis (Or) dove attualmente svolge il suo ministero sacerdotale. Al momento è anche Responsabile Diocesano per la Pastorale giovanile.
“ho cominciato a scrivere canzoni in Seminario. A quel tempo musicavo soprattutto brani biblici e Salmi che servivano per l’animazione di incontri di preghiera. Mi è capitato anche un fatto un po’ curioso: Ho sempre adorato “La Buona Novella” di Fabrizio De Andrè. A quel tempo, forse dovuto al mio coinvolgimento esistenziale alla persona di Gesù, considerai “incompleta” l’opera di Fabrizio e così, per me stesso e per pochi amici, mi permisi di “aggiungere” alcuni brani composti da me: una canzone sul figliol prodigo attualizzata ai problemi della mia generazione: un giovane che lascia Dio in nome di un confuso “impegno politico” che finisce per travolgere ogni freno e scemare nella droga: durava un quarto d’ora…Poi un dialogo immaginario tra due discepoli nella loro prima sera alla sequela di Gesù. “Il Testamento di Giuda” e “Getsemani”. Oggi sorrido, però è stata anche la prima volta che mi cimentavo a scrivere qualcosa in modo diverso, nel modo che facevano e fanno i cantautori. In quegli anni la musica nasceva dalla gioia per l’esperienza di fede che vedeva altri giovani come me coinvolti in una condivisione di formazione al Sacerdozio. Ho bellissimi ricordi di quei giorni e di quei giovani di cui, molti, sono oggi sacerdoti. Quando c’è stata la Legge sull’aborto, mi venne di getto scrivere una canzone: “La storia di Andrea (o forse Daniele)”. La intitolai così proprio perché la possibilità di essere una persona e quindi avere un nome gli era negato: abortito. Ma francamente è una canzone che considero “debole”, rasenta lo smielato. Tornando in Sardegna ho perso molti contatti perché, a lungo andare, il telefono non soddisfa, tempo per scrivere lettere non ce n’è tanto e così… mi sono ritrovato giovane prete, spedito in una parrocchia anticamera della Barbagia. Lì, nei silenzi dell’inverno e del freddo, nella solitudine spalmata su qualche malumore ho scritto la mia prima vera canzone “diversa”. Farla sentire agli amici o a qualche parrocchiano più vicino che era riuscito a superare lo scoglio del mio essere “il Parroco” fu una rivoluzione. Il titolo è: “Canzone delle ore depresse” e già il titolo la dice lunga. E’ una canzone che amo proprio perché scandalizza; perché fa strano che un prete dica: “ragazzi sono scoppiato come un petardo, lasciatemi in pace, non mi metterò la maschera di “quello che sta bene” per far stare bene voi e il vostro perbenismo: sto male anch’io. Non è crisi di fede; è crisi e basta. C’è chi va in ferie e c’è chi va in crisi. ‘Stà botta vado in crisi. Posso? Grazie.” Una strofa dice: “Non ti basta
fare carriera o entrare in una casta
per mettere a tacere questo tuono
che ti rimbomba dentro e che ti impasta
nel mixer del tuo nulla senza suono”.
Poi il 30 maggio 1992 ho preso una mazzata tremenda: è morto il mio migliore amico, Mons. Vincenzo Mincevicius. Lui era il mio “alter ego”, la persona con cui ho condiviso tutto per undici anni. Ho ricevuto ed imparato molto ed altrettanto lui diceva di me. La sua morte improvvisa è stato un dolore che mi ha fatto veramente vacillare e mi ha gettato in una tristezza profonda che mi svuotava velocemente. Anche il mio rapporto con Dio e con il Sacerdozio entrarono in un conflitto sordo.
La cosa che mi tormentava di più era, sapere con certezza che, Vincenzo mi avrebbe preso a calci a vedermi in quelle condizioni “soltanto” per la sua morte. Mi avrebbe dato dell’infantile, dell’idolatra che vive nei capricci e non nella realtà; nella pretesa di possesso delle persone e delle cose e non nel dono, di aver avuto ed incontrato.
Essere Parroco in quel periodo fu tremendo: le persone venivano da me a cercare un aiuto per il loro dolore ed io non avevo parole neanche per il mio. Stavo malissimo e facevo una fatica enorme perché capivo perfettamente le loro ferite e le devastazioni sincere del lutto ma il mio cuore e la mia bocca non potevano sgusciare da quegli incontri con semplici frasi di circostanza che scimmiottano le speranze della fede.
In quel periodo ho scritto “Sognare (forse è possibile)”, canzone che considero bellissima per la sua umanità lucida e dolente:
“… Sono i ricordi che abbracciano i rimpianti
per le persone amate che perdiamo
sempre più poveri, sempre più viandanti
infastiditi e dissidenti camminiamo.
Sono i ricordi che gonfiano i polmoni
nell’ansimare di un sospiro vuoto e lento
mentre ritorni a odori, luoghi e suoni
che ora ti mancano
e che la vita ha spento”.
Dello stesso umore “Sogno lituano” dedicata a Lorenzo Ringievicius, morto nel 1986:
“…Ma sulle rive del Neamunas
sento infinita solitudine
e la mia nascosta geometria
non vale quel periodo siderale”.
In quello stesso periodo nasce “L’uomo che cammina”
“ …è un uomo che cammina notte e giorno
per una strada semibuia e angusta
potrebbe chiedere a chi cammina intorno:
scusi, signore, la direzione è giusta?”
Ho sempre ascoltato con attenzione gli altri; in quel periodo ascoltare il dolore degli altri fu ancora più profondo perché nelle loro espressioni ritrovavo ciò che io stesso provavo. Riuscivo così a parlare a queste persone con una verità profonda, invitandole a prendere sul serio il loro dolore, a non sentirsi in colpa se, pur avendo fede, si ritrovavano a gridare “NO!”.
In quell’esperienza di buio sono cresciuto tantissimo.
Dio non mi ha abbandonato e non ha permesso che io cadessi in una disperazione cieca e blasfema.
Io ho sempre avuto, con Gesù, un rapporto “alla pari”. Nel senso che sento con il Gesù dei Vangeli una confidenza totale. L’ho sempre percepito “simpatico”. Da subito mi è piaciuto il suo capovolgere i valori della vita e del mondo: Gesù ha sfasciato tutto – pensiero e potere - e si è messo al centro: “Io sono la verità, la via e la vita”. Questo Gesù che chiede tutto io l’ho amato e seguito. All’inizio l’ho accolto come Maestro, è poi diventato il mio Signore. Ciò che dice e che vuole mi incanta e mi intriga, divento suo ma anche lui diventa mio. Anche lui paga un prezzo: diventa mio. No nel senso che ne faccio ciò che voglio ma nel senso che ormai io non ho altro e che quindi anche la mia aggressività, i miei no, i miei perché sono solo per Lui e Lui non li ignora. Ora accetto che in tutta questa storia sia Lui l’”autista”; che guidi Lui, che decida Lui dove passare per raggiungere la mèta.
Puoi immaginare allora i momenti della preghiera, dello “stare insieme”. Lì c’è tutto: le cose che hai da fare, le persone incontrate e quelle da incontrare, le sue parole, le mie parole, la mia rabbia, Il suo amore, il mio amore, la sua croce, il mio sgomento, il mio peccato.
Peccato non aver potuto condividere con Vincenzo anche questa fase, questa crescita che passa attraverso il mistero della croce. Vincenzo in vita sua ha sofferto molto: io ero troppo giovane per capirlo. Oggi che potrei capire lui non c’è più. Tante volte alle sue parole sofferte ho dato risposte perentorie dettate dall’arroganza dei giovani che non conoscono le sfumature dell’esistenza “sfidare dèi o ciclopi è un guizzo giovanile”… “Ulisse”.
Poi sono arrivati i Malinda Mai, orchestra diretta dai Maestri Antonello Manca e Fabrizio Meli. Un amico comune, il chitarrista Andrea Cutri (che conosceva qualche mia canzone) me li presenta: faccio sentire loro una decina di canzoni e… sono promosso. Inizia così un lungo lavoro (soprattutto notturno) di arrangiamento delle canzoni. Inizialmente io volevo solo incidere un CD, sono stati loro a dirmi che era troppo poco e che non dovevo escludere a priori di fare serate. E così ho cominciato a fare qualche serata…
2007-09-29