Scampoli di pluralismo d'informazione
Il ritorno di Michele Santoro in tv, di giovedì sera come ai vecchi tempi, è solo un primo, seppur importante passo verso una “purificazione” del clima televisivo contemporaneo, dopo che da quattro anni a questa parte abbiamo assistito inermi all’istaurarsi di un impronunciabile regime mediatico. Forse ci si accorgerà della gravità di ciò che è stato solo vivendo questa nuova stagione, come per tutte le cose che seguono il criterio della gloria postuma. È stato un primo passo perché non ci dimentichiamo affatto della cacciata di un Biagi che per quarant’anni ha lavorato in Rai, di un Luttazzi censurato per aver espresso la più autentica satira e di una Guzzanti tolta di mezzo per aver detto semplicemente la verità. Santoro in video è stata un po’ una liberazione, rivedere qualche inchiesta “vecchio stile” ha significato respirare di nuovo la libertà di denunciare qualcosa che non va, di ascoltare parole ormai in disuso, di scoprire che esistono modi di fare giornalismo che rompono i soliti schemi televisivi. I temi della puntata d’esordio, dall’immigrazione al degrado urbano, raramente sono stati affrontati in questi anni, quasi mai in modo frontale e sul campo, tra le periferie abbandonate e i cantieri edili. Impattare con una realtà che non interessava quasi più nemmeno alla televisione pubblica ha trasformato per due ore il servizio pubblico italiano in quello inglese, francese, tedesco o svizzero, quanto di meglio c’è in Europa. Poco importa per ora se gli ascolti non sono stati esaltanti (poco più di 3.7 milioni di spettatori), considerato anche la concorrenza pop di cesaroni, pupe e secchioni nelle reti Mediaset. Un inizio di basso profilo, con tematiche volutamente emarginate, non poteva pretendere di più; auspichiamo puntate su sviluppi recenti, confidando sul fatto che ce n’è per tutti i gusti. Su tutti una conferma e una sorpresa. Marco Travaglio, che nell’avvicinarsi ogni giorno di più alla televisione, ha dimostrato ancora una volta che ciò che conta è la sostanza: in dieci minuti ha demolito la legge Bossi-Fini citando fatti e casi concreti di immigrati, facendo poi le pulci al recente indulto, di cui ha ribadito l’iniquità. Rula Jebreal è stata assolutamente convincente con la sua intervista a Fausto Bertinotti, incalzante e scomoda, rendendo così onore alla professione giornalistica più autentica. Tutto sommato possiamo dire “buona la prima”, nonostante un Santoro ancora un po’ in sordina, poco carico rispetto a come ce lo ricordavamo (forse per gli anni che passano o forse per gli argomenti trattati), anche se sicuramente di tutt’altro tenore rispetto a quello imbarazzante dell’apparizione a Rockpolitik lo scorso anno. Infine un appunto ad Aldo Grasso, che sul Corriere della Sera ha criticato il conduttore, reo secondo lui di essersi autoincensato quale baluardo della libertà d’informazione. Grasso sbaglia bersaglio. Ciò che ha fatto apparire Santoro tale non è stato un suo inesistente autoelogio, ma il clima televisivo di censura degli ultimi quattro anni; se poi consideriamo che Santoro ha immediatamente ricordato (e lo farà ad ogni puntata) che solo con i ritorni di Biagi, Luttazzi, Guzzanti e quanti altri si ristabilirà finalmente una condizione di normalità, possiamo tranquillamente concludere che stavolta Aldo Grasso ha toppato al 100%.
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