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"Dreamt For Light..." (Capitol, 2006) |
Sparklehorse “Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain”
Etichetta: Capitol Brani: Don’t Take My Sunshine Away / Getting It Wrong / Shade and Honey / See The Light / Return To Me / Some Sweet Day / Ghost In The Sky / Mountains / Morning Hollow / It’s Not So Hard / Knives of Summertime / Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain Produttori: Mark Linkous & Dangermouse
Il ritorno di Mark Linkous è già di per sé una buona notizia, perché con personaggi del genere non sai mai come possa andare a finire. Di uno che da sempre si sbatte tra depressione, tossicodipendenza, frustrazioni fisiche e psicologiche occorre capitalizzare anche il minimo sussulto creativo e, nel caso degli Sparklehorse, questo non è mai stato un problema, tutt’altro, essendo ogni disco – pochi per la verità: questo è soltanto il quarto in undici anni – salutato con affetto, perlomeno da quello spicchio di pubblico devoto a certo cantautorato sghembo a stelle e strisce. Certo, dentro “Dreamt For Light Years In The Belly Of A Moutain” non c’è il miglior Linkous di sempre, ma c’è un gran bel pop, suonato con delicatezza, con discrezione e, qua e là (Ghost In The Sky), con la dovuta cattiveria. E se il disco si apre con un pezzo come Don’t Take My Sunshine Away c’è già di che gridare al miracolo. Beatles, Neil Young, Grandaddy e Flaming Lips tutti insieme per un Linkous che rischia di non riconoscere se stesso in una giostra di colori accesi e di suoni assolati, quasi estivi, da ultima spiaggia della gioia e del dolore. E’ nei versi iniziali della ballata Shade and Honey che è racchiuso l’universo poetico di Linkous tutto, compresi i suoi estremi («I could look in your face/for a thousand years/it’s like a civil war/of pain and of cheers»): è dentro questo recinto di sensazioni contrastanti, gioia e dolore, estasi e rassegnazione, che Linkous si è sempre aggirato ed è da qui che si dipartono tutte le nuove canzoni. Dai cento anni di un viso amato che somiglia ad un’intima e disperata guerra civile nascono gli Sparklehorse in tutte le loro sfumature, sia quelli propensi alla lacrima (bastano i versi «they’re playing our song… getting it wrong» di Gettin It Wrong a rendere l’idea) sia quelli che sputano fiamme sopra chitarre saturate («see you blind/behold your savior’s come/dance for death» in Ghost I The Sky). Alcune di queste canzoni sono state suonate e registrate in perfetta solitudine allo Static King, lo studio di casa Linkous, altre sono state prodotte da Dangermouse, che ha dato una rinfrescata, digitalizzandolo in maniera discreta, al suono tipico dell’american folk, e una canzone appartiene alle session del precedente “It’s A Wonderful Life”: ciononostante l’album ha un’unitarietà di fondo innegabile, tutte le dodici tracce traghettano l’ascoltatore dentro il nuovo scenario creato da Linkous, che non si discosta troppo dai precedenti ma li arricchisce di nuove perle. La canzone che risale a cinque anni fa è Morning Hollow e possiede un ritornello di infinita malinconia («she don’t get up when I come into the room/she don’t run through the fields anymore»), in cui languore e lentezza giocano a rincorrersi, col pianoforte di Tom Waits a far la guardia. C’è una malcelata fragilità nelle canzoni degli Sparklehorse, ogni istante rischia di mandare in frantumi quello successivo; addentrarsi dentro il mondo fantastico e triste di Linkous è come camminare su gusci d’uovo. Ecco, “Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain” è un percorso in punta di piedi, e se lo si compie tutto in una volta si arriva dritti allo struggimento: succede all’ultima traccia, non a caso la title-track, una suite in cui il pianoforte dosa il suo dolore con cura chirurgica e raschia il fondo del male che ci portiamo dentro chissà da quanto. Tra fruscii, riverberi, lontananze cosmiche e spessori sottili di suono, la melodia del piano chiude il disco con la grazia di una claustrofobia invocata e ringraziata.
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Pierluigi Lucadei
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Recensioni |
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il 25 Oct 2006 alle 15:20 |
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