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Espiazione

"Espiazione" di Joe Wright

di Chiara Poletti

 

Un innesto di tempi, primi piani e fotografie guidata da una incontenibile epifania di fermi immagine. Laghi, ville, biblioteche, costumi floreali anni 30. Il verde londinese, i paesaggi della mente e le allucinazioni della fantasia. E qualche sparuta scena di guerra. Un film aggraziato che stringe l’occhio al profumo di donna, evocativo e un po’ “perfettino” come vuole la Biennale. Del resto la vocazione veneziana è celebrare la bellezza del cinema, e chi meglio di Lido, può farlo: prima di Volpi, era un’ estroflessione dell’amministrazione comunale per illustri salottieri e artisti che compravano costosi opere d’arte alla Biennale Arte. Come quel violoncello che nel film dialoga con il pianoforte. Ecco, qui siamo in un film di Venezia; con una musica di sottofondo che “prega” la nobiltà tanto cara agli anglosassoni. Di nuovo come il regista di Orgoglio e Pregiudizio, Joe Wright che confeziona un film sensitivo, onirico e molto godibile per le musiche, appunto. Sussurri, ricordi, parole non dette, fantasticherie.

  

Ogni sensazione che rimanda il film, si lega silenziosamente ad una candida e gracile ragazzina dell’alta società, Briony Tallis che rimane ammaliata dell’uomo “tutto fare” amato dalla sorella maggiore. Lo vorrebbe per sè e così  per impedirne l’unione, lo fa accusare di violenza sessuale. E parallelamente stregata dalla scrittura, non resiste alla tentazione: scrive la sua storia d’amore, senza protagonisti. E lo spettatore la segue come in un gioco innocente di cui nessuno immaginerà le ripercussioni. Non importa se quella trama esista davvero...ma qui cresce la storia e le ossessive fantasie di Tallis. Cresce quel desiderio di possesso infantile per ciò che ancora non si ha, come il corpo formoso e sensuale della sorella. E la soluzione è solo la macchina da scrivere. Una storia di un’adolescente che farà della scrittura la sua ragion d’essere, provando sentimenti già adulti, come gelosia, passione, invidia che crescono disordinatamente. Un romanzo nel romanzo, che si regge sul gioco di realtà e supposizioni, tra passato e presente; che prende a prestito la tecnica del giallo psicologico “appannato” di fantasie fanciullesche incontrollabili e deflagranti.

 

Il romanzo anglosassone di Ian McEwan da cui è stato tratto l’omonimo film, affresca con l’effetto cinematografico e musicale ciò che serve allo spettatore, benché il merito del capolavoro è abbondantemente lasciato al libro. Un film che premia l’energia potenziale, un moto perpetuo che avanza come un’ombra di sospiri e rumori: scarpette, trilli, ritmi al pianoforte, ticchettii della macchina da scrivere, corse, scale e ronzii di vespe (bella metafora “velenosa” nella prima scena del film). Non è un film lento, ma incostante e con sobbalzi del cuore creati dalla musica. A volte sembra già scritto, altre volte irreale, altre ancora si perde. Un gioco che smarca il passato sul presente. E si sostiene di questo. Non della trama. Le conseguenze sono l’ossatura del film, che poi si “asciuga” e prende corpo con l’espiazione della colpa nel secondo tempo. I tempi sono un continuo alternarsi di flash back induttivi e deduttivi. I personaggi si intrecciano senza soluzione di continuità. Tuttavia, i nomi e cognomi degli attori, qui non servono: tutti bellissimi. Peccato solo la loro staticità, e basta guardare la sensuale star del momento, Keira Knightley (la sorella maggiore) per capire che la recitazione è funzionale solo all’auto-contemplazione del corpo: una sfilata di vestiti di raso verde, rosso, luccicanti e trasparenti con spacchi provocatori, fondo schiena e nudità che fanno bene al botteghino di mezza coppia, ma scontati come una soap opera (dirà sull’Espresso anche Lietta Tornabuoni). Un film evocativo, che lascia nel cuore una rugiada primaverile e passeggera.

 Redazione 

Recensioni

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