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“Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì (Italia, 2008) |
Quando il call center fa paura: intervista a Paolo Virzì
Dopo una brillante laurea in filosofia teoretica, Marta riesce a trovare lavoro soltanto come telefonista nel call center di un’azienda che commercializza elettrodomestici. Entra così in un mondo di giovani lavoratori a progetto, plagiati e invasati, scientificamente motivati al profitto aziendale. Dopo un tiepido entusiasmo iniziale, si rende conto dell’abuso a cui viene sottoposta e dalla sua segreta testimonianza prenderà vita un’iniziativa di denuncia. Questa in breve la trama di “Tutta la vita davanti”, ottavo film di Paolo Virzì. A dieci anni da “Ovosodo”, il regista toscano entra a gamba tesa nelle tematiche della precarietà e dello sperpero di talento, mostrando come il lavoro degenerato dei contratti a progetto sia una vera e propria violenza perpetrata ai danni di tantissimi giovani. Abbiamo incontrato Virzì in occasione dell’anteprima di “Tutta la vita davanti”.
Il mondo del lavoro che rappresenti è davvero desolante. E’ questa la realtà purtroppo. Il film vuole essere un’occasione per raccontare lo spirito del nostro tempo, con uno sguardo curioso verso quelle aziende un po’ furfanti cresciute negli interstizi delle nuove leggi che consentono i contratti a progetto e quindi l’attività lavorativa precaria di tanti ragazzi e ragazze. Sembra proprio che oggi la nuova imprenditoria si limiti a quella furfante alla Claudio (l’imprenditore del film, nda). Noi raccontiamo le peripezie di una ragazza colta in questo mondo per lei sconosciuto, popolato di ragazzi ignari che ogni mattina si mettono in moto per andare a conquistare la loro manciata di euro, nutriti dalla sottocultura pop di origine televisiva che sembra essere diventata l’estetica e anche l’etica di questi nuovi luoghi di lavoro. Per rappresentare il precariato avete scelto un tipo di azienda all’americana. Come siete arrivati a una scelta di questo tipo? Ci stava molto a cuore il problema e ci siamo dedicati alla ricerca di casi umani, letteralmente. Ci siamo resi conto dell’esistenza di una società bloccata, chiusa, e abbiamo trovato ispirazione nel reportage di Michela Murgia, una giovane scrittrice sarda che ha davvero fatto la telefonista in un’azienda che commercializzava aspirapolvere. Il suo libro, “Il mondo deve sapere”, è stato prezioso perché ci ha trasmesso il desiderio di guardare a questa realtà con l’occhio curioso di una ragazza intelligente e colta. Questi call center possono essere davvero così penosi, specie quelli col metodo outbound, quelli cioè in cui i telefonisti non ricevono le telefonate ma le fanno. Vengono plagiati, si sentono dei manager, ma sono soltanto dei piazzisti. Anche i registi fanno parte della categoria dei precari? Non mi voglio lamentare io, figuriamoci. Io, tra i registi, sono un pesce fuor d’acqua tra l’altro. Sono figlio di un carabiniere e di una casalinga e con questo ho detto tutto. Ma non mi sembra il caso di lamentarsi della precarietà dei registi. Piuttosto mi inizio a preoccupare per mia figlia che ha nove anni e, ahimé, manifesta già velleità umanistiche. Magari finirà anche lei a studiare filosofia. A Claudio, il viscido imprenditore interpretato da Massimo Ghini, concedi anche delle sfumature buffe e simpatiche. Sì, perché io lo stronzo del film lo devo detestare ma gli devo anche volere bene. Con Massimo mi posso permettere questo. Lui è un puro. E’ buono, generoso. Posso fargli fare la parte del furfante, perché non riesco a odiarlo. Per dire, un furfante fatto da Barbareschi non potrebbe mai stare in un mio film. Non ritieni che il personaggio di Lucio 2, interpretato da Elio Germano, sia troppo caricato? O credi che un personaggio del genere possa trovare corrispondenza nella realtà? Per me non è un personaggio caricato, anche se sentirmi dire il contrario non mi offende. Se c’è un’enfasi caricaturale, ben venga. Io, oltre che regista, sono un grande cuoco e un grande caricaturista, per cui… Comunque il personaggio di Lucio 2 passa attraverso tre fasi: nella prima è esaltato, nella seconda depresso, nella terza disperato. In sostanza è un bamboccione, uno di quelli tutti inquadrati dalla famiglia, proveniente da una borghesia piccola piccola, uno che ha la stessa fidanzata da quando ha dodici anni, che non si è mai fatto una sega, uno a cui i genitori hanno appena comprato una macchina nuova. All’inizio si esalta ma al terzo mese di lavoro nell’azienda finalmente capisce di essere un povero pezzo di merda. E’ uno schizofrenico diviso in tre invece che in due. E’ logico che un personaggio del genere ho potuto farlo perché avevo Elio Germano che è un fenomeno, un mostro di bravura. Come hai scelto Isabella Ragonese per la parte di Marta? Tramite provini. Di Marte ne avevo viste duecento, ne ho cercate di tutti i tipi, volevo trovarla toscana all’inizio. Sono arrivate tante bravissime attrici, ma Isabella le ha sbaragliate tutte. Mi ha convinto con la sua umanità e con il suo sguardo. E Micaela Ramazzotti per il ruolo di Sonia? Dopo dieci minuti di provino, le ho dato il copione e le ho detto “sei te”. Avevo altri trenta appuntamenti e li ho annullati perché avevo trovato la Sonia che volevo. Micaela la conoscevo, la ricordavo in “Zora la Vampira”, ma quando si è presentata con degli occhialoni neri che sembravano nascondere chissà quale malessere, non potevo non darle la parte.
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Pierluigi Lucadei
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il 28 Mar 2008 alle 17:30 |
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