“Sette anime (Seven Pounds)” di Gabriele Muccino
Il detto latino Nemo propheta in patria male si addice al nostrano Gabriele Muccino ed al suo ultimo lungometraggio (il secondo della sua nascente carriera statunitense) “Seven Pounds”: proprio in Italia Gabriele Muccino ha ritrovato il successo e l’apprezzamento di un pubblico accorso numeroso al cinema per il suo “Sette anime”, film stroncato invece oltreoceano dopo i fasti dell’acclamato “La ricerca della felicità (The pursuit of happiness)”, uscito con grande lancio e impeto nel week end precedente il Natale (il più importante forse in America insieme a quello del 4 luglio) ma che gli ha donato negli Stati Uniti invece soltanto critiche da parte dei giornalisti addetti al settore, il tutto condito da un riscontro al box office decisamente al di sotto di ogni aspettativa. Ignorato da ogni premiazione di rilievo finora svoltasi e dato per sfavorito in qualsiasi categoria per la corsa agli Oscar, “Sette anime” ha generato negli Usa le medesime critiche con cui Muccino doveva confrontarsi in Italia ai tempi delle sue produzioni esclusivamente destinate al mercato italiano: regista macchinoso e confuso, con uno stile registico consolidato ma ai limiti del metafisico, gli esperti ed i critici non hanno perso tempo nel distruggerne il nuovo lavoro, contraddicendo chi sperava in ben altra accoglienza grazie anche all’ausilio di un cast sulla carta eccellente con gli intensi Will Smith (forse più a suo agio con i ruoli brillanti o action) e Rosario Dawson, coppia che doveva fornire un mix e un appeal notevole ma che alla fine risulta perlopiù anch’essa forzata e male assortita. Variety, il Los Angeles Times, il New York Post sinceramente sembrano però aver calcato un po’ troppo la mano, perdendo alle volte anche il filo del discorso: partendo dalle normali recensioni del film, si è spesso giunti ad esprimere nefandezze di ogni tipo, colpendo direttamente Will Smith reo a detta delle testate di alcune scelte discutibili nella sua vita privata, di qualche piccolo scandalo (una maitresse hollywoodiana lo ha tirato in ballo per delle presunte richieste hard) ma soprattutto della sua fede per Scientology, motivo per cui è stato paragonato a Tom Cruise ormai divenuto vero bersaglio del gossip e delle speculazioni giornalistiche Usa; Gabriele Muccino è stato più o meno velatamente accusato di voler fregare gli spettatori americani con il suo stile compiaciuto ed assolutamente prolisso, fatto di sotterfugi e di trame mai svelate pienamente. Il film è sicuramente complicato, intricato e difficile (si spazia facilmente dal suicidio al profondo senso di colpa che annienta), ma lo sforzo del regista italiano è apprezzabile, deciso sempre più a ritagliarsi uno spazio al sole nella dorata industria cinematografica hollywoodiana, anche se ultimamente sembra volerne prendere leggermente le distanze con la realizzazione di alcuni progetti totalmente italiani (fra cui il sequel de “L’ ultimo bacio”). Forse una vacanza dall’Eldorado di Hollywood non potrà che rivelarsi rigenerante.
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