Monaco 1972: “Le Olimpiadi della Pace e della Gioia”; del record assoluto di presenze con 7121 atleti di 121 nazioni differenti; dell’oltre un miliardo di telespettatori; dell’incredibile finale di basket miracolosamente vinta dall’URSS contro i rivali storici, e fino ad allora imbattuti, degli USA; delle sette medaglie d’oro del nuotatore statunitense Mark Spitz. Ma quella che doveva essere una “festa dello sport”, si trasforma, nella notte tra il 4 e il 5 settembre, in un vero e proprio bagno di sangue: otto terroristi palestinesi del gruppo “Settembre Nero” occupano il villaggio olimpico di Monaco mantenendo in ostaggio 11 atleti israeliani. La loro richiesta è la liberazione di circa 200 palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane. Il dramma si consuma all’aeroporto di Fùrstenfeldbruck, da dove i guerriglieri sarebbero dovuti partire per l’Egitto: le teste di cuoio tedesche aprono il fuoco ma tutti gli ostaggi perderanno la vita così come 4 dei fedayn palestinesi e 2 agenti tedeschi. Quasi un milione di spettatori vive il dramma in diretta televisiva.
A pochi giorni dalle Olimpiadi invernali di Torino vale davvero la pena riportare il tutto alla memoria, soprattutto alla luce dell’ultimo lavoro di Spielberg, Munich. E’ un film che inizia e termina proprio con tali eventi, ma racconta in maniera magistrale ciò che è avvenuto dopo, a partire dall’ordine, dell’allora primo ministro israeliano Golda Meir, di uccisione dei responsabili dell’attentato, nella convinzione che prima o poi “uno Stato deve scendere a compromessi con i propri valori”. Viene così messa in piedi un organizzazione a tal fine, per portare a termine la nota “Operazione Ira di Dio”. A capo di questa viene posto Avner Kauffman, agente del Mossad, straordinariamente interpretato da Eric Bana, già ammirato in Troy nei panni di Ettore. Un uomo “con mani da macellaio e un cuore troppo sensibile” che trova però la forza di lasciare Israele e la propria famiglia perché è proprio per loro che scende in trincea. Vale la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente: Avner, insieme ad altri quattro uomini, gira l’Europa e tra Beirut, Londra, Cipro e Parigi elimina sette degli undici fedayn coinvolti nell’attentato di Monaco. Quello che il regista di Schindler’s List ci mostra non è il solito pastrocchio retorico ma un realistico racconto condotto quasi in maniera documentaristica che ha scatenato reazioni a destra e sinistra, tra arabi e palestinesi, e anche tra gli americani che ci hanno visto un’offesa alla loro politica estera. Lui, ebreo di Cincinnati, mostra, ancora una volta, grande capacità e coraggio nel trattare temi così scottanti che fanno rumore sempre e comunque. E lo fa con maestria d’altri tempi avvalendosi anche del contributo del Premio Pulitzer Eric Roth (già sceneggiatore di Insider e Forrest Gump) e di un maestro della fotografia come Janusz Kaminsky. Ciò che ne esce fuori è un thriller emozionante, certo non adatto ai cardiopatici per le scene di violenza, sangue, corpi mozzati e sparatorie. La resa formale è ottima così come l’intento riuscito di dimostrare il dramma di un popolo o, meglio ancora, dell’uomo e di tutto ciò che ribolle in lui come magma vulcanico pronto a fuoriuscire quando si trova ad uccidere un suo fratello. Il viaggio di Avner è un viaggio del cambiamento, nel quale Spielberg non offre risposte né certezze, solo l’idea che spesso il saper perdonare è meglio dell’aver ragione: la vendetta o l’odio non sono affatto sentieri di pace e giustizia, l’unica strada percorribile è quella del dialogo. Allora come oggi: nella scena finale infatti, sullo sfondo compare prima il palazzo di vetro dell’ Onu e poi le Torri Gemelle, come a dire che il fanatismo ma anche la poca o scarsa diplomazia non portano a quei cambiamenti, anche strutturali, tanto desiderati quanto evocati.
Simone Grasso
Cultura e spettacolo – lunedì 30 gennaio 2006, ore 15.43