"Inside man" di Spike Lee
Signori questo sì che è vero cinema. Davvero tanto di cappello a Mister Spike Lee che ancora una volta dimostra di essere un guru della macchina da presa. Scene ricche di inaspettabili tagli tra flashback e flashforward, inquadrature veloci che si affiancano ad una sceneggiatura (dell’esordiente Russel Gerwirzt) complessa ma efficace e musiche (Terence Blanchard) quanto mai azzeccate. Questo è Inside Man: un thriller formidabile, dall’inclinazione un po’ poliziesca e dalla struttura un po’ noir, che ci incanta con le vicende di una banda di rapinatori, guidata da un certo Dalton Russel (Clive Owen) e del loro tentativo di portare a termine il colpo perfetto nella New York delle grandi banche. Sulla loro strada troveranno il detective Frazier (il sempreverde Denzel Washington), tanto acuto quanto pericoloso per chi, come la spigolosa signorina White (Jodie Foster) o il noto direttore di banca Cristopher Plummer custodiscono uno scottante segreto. Nel mezzo tutta una serie di vicende ad incastro che tengono sempre alta la tensione.
E’ uno di quei film in cui stai lì sulla tua poltroncina sgranocchiando pop corn e cercando continuamente l’amico che ti siede affianco nel tentativo di capire insieme il perché e il percome di quei gesti o di quelle parole. Di quei dialoghi che risultano essere curatissimi e mai banali, dalla forte connotazione etica che si mescola talvolta ad un humor singolare. D’altra parte l’attenzione a tale aspetto già era stato sottolineato nell’incipit del film: “Fate attenzione a quello che dico, perché scelgo le mie parole con attenzione e non mi ripeto mai...”. Il signor Russel stava praticamente preannunciando la rapina del secolo ma, parafrasando l’Amleto shakespeariano, è “sul come che nacque l’intoppo”. Perché ci sono i buoni e i cattivi. O per meglio dire i meno buoni. Difatti la banda uscirà intatta ed illesa dalla banca senza aver portato via nemmeno un dollaro. Diamanti sì. E un plico: quanto basta per mettere in subbuglio l’esistenza di Plummer, e far conoscere le oscure vicende che gli hanno permesso di scalare il successo. Allora si capisce che Russel non è un ladruncolo da quattro soldi , “è uno che ha studiato”, che utilizza le parole come lama tagliente e sfrutta la rapina per dimostrare qualcosa di importante: che l’unica moneta che possa avere del valore in questa vita è il rispetto, che per quanto si tenti di scappare dal proprio passato e dai propri peccati arriva un momento in cui sei costretto a fermarti e a pagare. E questo momento sembra essere arrivato per il direttore di banca, le cui vicende sono del tutto antitetiche a quelle del detective Frazier. A lui gli viene data la possibilità di crescita professionale, a patto che se ne stia lì buono buono e zitto zitto e che non si intrometta in queste vicende poco chiare. Si piegherà alla fine, il buon detective, ma non senza aver infangato la buona reputazione e la dignità della signorina White prima e del direttore poi.
Ben fatto signor Lee. Al regista newyorkese dobbiamo certo rendere merito per la sua genialità (da vero artista la scena che riprende quella panchina che si affaccia sul fiume Hudson già vista ne La 25a ora), per l’aver saputo proporre un thriller senza ricalcare i soliti clichè delle sparatorie senza fine, dei corpi mozzati o delle auto che prendono facilmente fuoco. Non si tratta insomma del classico gioco a guardia e ladri ma una sorta di rebus verbale, un cruciverba in cui solo dopo aver scovato le singole parole si arriva alla soluzione. Il problema qui diventa di comprensione o di comunicazione, tra un furbo emittente e un saggio ricevente, che spesso viene alterata ed insidiata da rumori e fastidi vari. Dicotomia tradotta magistralmente dal regista, che utilizza la banca come mezzo di divisione: da una parte la banda e dall’altra gli sbirri, dentro i “cattivi” e fuori i “buoni”, da una parte i “buoni” tra “cattivi” e dall’altra i “cattivi” tra “buoni”.
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