Lydia Lunch “Paradoxia – diario di una predatrice”
Confesso di aver iniziato a leggere questo libro con un po’ di scetticismo. L’ennesimo elogio della depravazione di una rockstar con velleità letterarie? La madrina dell’underground newyorkese racconta la storia di una divoratrice di uomini in lotta con i propri istinti, in bilico sulla linea sottile che divide edonismo e perdizione, che accumula uno stato di alterazione sull’altro, sperperando se stessa in un abbandono costruito scientificamente, «cercando di trovare in uomini persi un posto in cui perdermi». La lettura procede piacevolmente, pur nei momenti in cui la narrazione si raggomitola in un caos irrisolto, grazie alla prosa polposa di Lydia, che mantiene sempre alta la tensione e sperimenta una forma di linguaggio che mette a nudo tutti i suoi demoni, specialmente quelli che si annidano tra le sue lenzuola. Carico di riferimenti a Henry Miller, “Paradoxia” è un romanzo violentissimo e pervaso da un malessere profondo come pochi altri romanzi in circolazione. Cantanti di rockband, spacciatori, quattordicenni cocainomani, motociclisti degenerati, travestiti, c’è un intero campionario di figure ai margini tra le prede della protagonista, tutti quei personaggi che, per dirla con Tom Waits, si possono incontrare soltanto sul wrong side of the road. C’è una violenza che non conosce sosta, da un letto all’altro, da uno scantinato ad una metropolitana, da un retropalco ad un cesso, tutto viene consumato con selvaggia voracità, senza una pagina in cui si possa respirare. “Paradoxia” non lascia il tempo di metabolizzare la disperazione, anzi non si fa scrupoli ad aggredire il lettore ancora e più forte, in un crescendo di rara patologia. Sullo sfondo città diverse che Lydia attraversa e vive con la stessa ritrosia a trovare un angolo di normalità, così che New York, Los Angeles, Amsterdam, Londra, New Orleans sembrano un unico spaccato d’inferno. D’altra parte la scrittura feroce e piena di lividi è per Lydia qualcosa di vitale. «Devo esibire le mie nude ferite personali – dice – per poter comprendere meglio il dolore degli altri, nella speranza che congiuntamente potremo guarire. Ho bisogno di penetrare il pubblico alla maniera di un contagio che consumi e purifichi tutti quanti». Se si è così bravi a trovarla, la purificazione che questo brutale romanzo può offrire è di quelle che ti fa avvicinare al baratro fino a sniffarne la puzza a pieni polmoni, prima di ritirarti su con gran fatica. Il problema, semmai, è che Henry Miller scriveva queste cose ottanta anni fa, creando giustificati scandali, mentre oggi nessuno sogna più di scandalizzarsi per il sesso descritto con tale dovizia di particolari. Forse Lydia avrebbe dovuto rischiare un po’ di più, magari uscendo solo per attimo dal vortice, mettendoci meno faccia e più cuore. Così com’è, “Paradoxia” resta un ritratto di donna grondante sangue e liquidi organici. Comunque unico.
New York City non mi corruppe. Ne fui attratta perché ero già corrotta. Dall’età di sei anni, il mio orizzonte sessuale era stato iperstimolato da un padre che non aveva alcun controllo delle sue fantasie, dei suoi istinti naturali o impulsi criminali. Tale padre, tale figlia. Prima dll’adolescenza, avevo già sperimentato mescalina, THC, marijuana, acidi, Quaalude, Tuinal, Valium e polvere d’angelo. Ero già navigata borseggiatrice, taccheggiatrice, imbrogliona part-time. New York era un gigantesco negozio di caramelle, un mercato della carne, un manicomio assurdo, un palcoscenico. Circondata da altri cinque milioni di tossici, fanatici, alcolisti, artisti della fregatura, sognatori, cospiratori e ignari bersagli. New York mi concesse il lusso dell’anonimato. Il parco giochi del diavolo. (Estratto da “Paradoxia”, L.Lunch, Leconte Editore 2006)
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